Uno sguardo sulla letteratura internazionale

Dissezione aortica acuta, iter diagnostico in casi di trauma cranico nei pazienti in trattamento con warfarin e utilizzo dell’ossigeno nei soggetti adulti affetti da infarto miocardico e senza ipossiemia: sono alcuni degli argomenti della nostra rassegna bibliografica più recente.

 

What Signs Increase the Likelihood of Acute Aortic Dissection? 

Chien N, Casey PE, Gottlieb M.

Ann Emerg Med. 2019 Apr;73(4):400-402. doi: 10.1016/j.annemergmed.2018.03.026. 

Cardiology / Systematic Review Snapshot.

 

[ in riferimento a: Clinical examination for acute aortic dissection: a systematic review and meta-analysis.

Ohle R, Kareemi HK, Wells G, Perry JJ.

Acad Emerg Med 2018 Apr;25(4):397-412. doi: 10.1111/acem.13360 ]

 

La dissezione aortica acuta (AAD) è una condizione rara, la cui mortalità aumenta dell’1-2% per ogni ora che passa dopo la sua presentazione; la diagnosi è particolarmente complessa e difficoltosa, data la sintomatologia aspecifica, le multiple diagnosi differenziali possibili e l’estrema variabilità clinica nella presentazione, tanto da sfuggire ai medici d’urgenza fino al 38% dei casi secondo quanto riportato in letteratura.

Viene qui discussa e commentata una revisione sistematica e metanalisi che ha valutato la letteratura relativa ai casi, nel Dipartimento di Emergenza, di pazienti adulti con sospetto di AAD, nei quali fossero disponibili informazioni anamnestiche e dati obiettivi: sono stati inclusi e presi in considerazione 9 studi (3 dei quali condotti in Italia), di cui 6 prospettici e 3 retrospettivi, su un totale di 2400 pazienti, con prevalenza di AAD tra il 21.9 ed il 76.1%.

Risultano essere segni clinici suggestivi di AAD il deficit neurologico focale sensitivo o motorio, il deficit nel polso e l’ipotensione (definita come pressione arteriosa sistolica < 90 mmHg o segni di shock). La presenza di altri segni clinici ed obiettivi tradizionalmente associati alla AAD (dolore irradiato al rachide, dolore lacerante o squarciante, edema polmonare, soffio da insufficienza aortica, pressione arteriosa sistolica alla presentazione > 150 mmHg, anamnesi di ipertensione arteriosa, sincope, dolore toracico, dolore addominale, dolore migrante) non risulta invece avere potere predittivo tale da incidere sostanzialmente sulla probabilità di AAD. L’assenza di allargamento del mediastino alla radiografia del torace può identificare un ridotto rischio di AAD. Per quanti da alcuni studi emergano risultati con alta specificità, in grado quindi di aumentare il sospetto di AAD, la sensibilità risulta sempre inadeguata nell’escludere la AAD stessa. 

Tra i sistemi a punteggio per la stratificazione del rischio, l’American Heart Association Aortic Dissection Detection Score < 1 si dimostra utile per ridurre il sospetto di AAD (per quanto il 5.9% dei pazienti con score = 0 presenti comunque la AAD); in un recente studio lo score pari a 0 associato alla negatività del D-dimero (< 500 ng/dl) ha identificato un rischio di AAD dello 0,3%. Lo score di Von Kodolitsch, invece, è costituito da 3 variabili (dolore ad insorgenza acuta lacerante e squarciante, allargamento del mediastino alla radiografia del torace, asimmetria nel polso o nella pressione arteriosa) e risulta utile solo se tutte e 3 sono presenti o tutte e 3 assenti.

Tra i limiti degli studi considerati, gli Autori della metanalisi sottolineano come: non vi sia uno standard di riferimento diagnostico condiviso (aortografia, tomografia computerizzata, risonanza magnetica); non vi sia una definizione condivisa di deficit nel polso o dolore; non venga chiarito se né come i trattamenti praticati possano avere inciso su segni e sintomi; la prevalenza di AAD sia superiore a quella che si osserva usualmente sul campo, il che può limitare la possibilità di estendere ed applicare questi risultati ad una classica popolazione a basso rischio come quella dei Dipartimenti di Emergenza.

In conclusione, secondo gli Autori: la presenza di ipotensione, deficit nel polso e deficit neurologico focale aumenta la probabilità di AAD (la combinazione di dati che emergano dall’anamnesi e dall’esame obiettivo può aumentare quindi l’accuratezza diagnostica); un punteggio pari a 0 nell’Aortic Dissection Detection score ne riduce invece la probabilità, può essere utilizzato per stratificare i casi a basso rischio ma non dovrebbe essere utilizzato da solo per escludere la diagnosi.

 

Understanding the management of patients with head injury taking warfarin: who should we scan and when? Lessons from the AHEAD study.

Mason MS, Evans R, Kuczawski M.

Emerg Med J. 2019 Jan;36(1):47-51. doi: 10.1136/emermed-2018-207621.

Review.

 

[ in riferimento a: AHEAD study: an observational study of the management of anticoagulated patients who suffer head injury.

Mason S, Kuczawski M, Teare MD, et Al.

BMJ Open 2017;7:e014324. ]

 

Interessante revisione della letteratura, scritta, a mio parere (che se ne condividano o meno lo spirito e le conclusioni), in modo critico costruttivo, che merita la lettura integrale, se non dal punto di vista clinico e metodologico, quantomeno da quello speculativo.

Non vi è consenso a tutt’oggi né vi sono chiare raccomandazioni da linee guida (date le evidenze scarse sia sul piano quantitativo che qualitativo), su quale sia l’iter diagnostico e gestionale più appropriato in casi di trauma cranico nei pazienti in trattamento con warfarin. La questione in ballo è in pratica: quale sia il rischio, quale il rischio accettabile, e se sia realmente possibile ipotizzare un approccio univoco che possa andare bene per ogni singolo caso.

Molte delle più note cosiddette “clinical decision rules” (CDR) (quali, ad esempio, CCHR e NOC) non prendono in considerazione i soggetti in trattamento anticoagulante; molte altre (NEXUS, ACEP, EFNS, The Study Group of Head Injury of The Italian Society for Neurosurgery, Scandinavian, NICE) raccomandano l’esecuzione di una tomografia computerizzata (CT) in tutti i casi in terapia anticoagulante, indipendentemente dai sintomi. Queste CDR hanno un elevato grado di sensibilità e basso livello di specificità; quando l’uno cala, l’altro aumenta; l’evidenza è scarsa e le metodologie con cui gli studi sono stati condotti sono eterogenee; questa carenza nelle evidenze lascia il clinico privo di chiare certezze alle quali appoggiarsi per definire univocamente il livello di rischio e la più appropriata strategia gestionale per il singolo individuo.

Gran parte della discussione di questa revisione si incentra sullo studio AHEAD dal quale è emerso in particolare come i soggetti che assumano warfarin, abbiano riportato un trauma cranico lieve (GCS 15) e non presentino sintomi ad esso correlati, abbiano un rischio di eventi avversi estremamente ridotto (2.7%).

AHEAD è uno studio prospettico osservazionale del 2016 che ha valutato 3534 pazienti adulti con trauma cranico non penetrante, già in terapia con warfarin, giunti a 33 Dipartimenti di Emergenza (ED) di Inghilterra e Scozia: una CT è stata eseguita nel 59.8% dei casi, con riscontro di quadri anomali intracranici imputabili al trauma nel 5.4%, tasso di eventi avversi del 5.9% tra i quali necessità di trattamento neuro-chirurgico (0.5%), nuovo accesso per rivalutazione in riferimento ad eventi correlati al trauma cranico (1.0%) e mortalità correlata al trauma (1.2%). Il GCS < 15 (presente nell’11.1% dei casi) risulta essere il principale fattore predittivo di esito avverso (rischio relativo pari a 4.82; pari a 10.53 se GCS ≤ 12). Sintomi neurologici associati al trauma cranico (perdita di coscienza, vomito, amnesia, ed in misura meno significativa anche la cefalea) correlano in modo significativo con l’aumentato rischio di esito avverso, anche nei casi con GCS = 15. Viceversa, l’assenza di uno qualunque dei sintomi sopra riportati nei casi con GCS 15 configura un rischio di eventi avversi del 2.7%. Inoltre, tra i risultati più interessanti vi è anche che l’INR non correli in alcun modo con l’esito, e che il tasso di complicanze tardive risulta decisamente basso (nuovo accesso al ED nell’1.1%, decesso imputabile a complicanze del traumatismo nel 0.6%). Sottoporre a CT tutti i soggetti con trauma cranico in terapia con warfarin configura quindi un elevato rapporto tra costi e benefici (in termini di costo per anno di vita aggiustato per qualità). Da notare inoltre come nello studio AHEAD non venga considerato né esplicitato il GCS di base dei pazienti inclusi.

Nello studio AHEAD il rischio è definito come prodotto tra la probabilità che un evento occorra e la severità delle sue conseguenze, e la severità delle conseguenze varia da una lieve contusione sino ad un sanguinamento inoperabile cui consegue il decesso; questa modalità di definizione è essenziale nello strutturare metodologicamente lo studio in modo rigoroso, ma ne limita inevitabilmente l’applicabilità clinica in termini decisionali sul singolo paziente. Anche il concetto di “rischio accettabile” differisce tra medico e medico, e tra medico e paziente; più spesso di quanto crediamo, infatti, i pazienti sarebbero disposti ad accettare per sé un più elevato livello di rischio, e desiderano e preferiscono essere coinvolti direttamente ed esplicitamente nel processo decisionale: vi è evidenza che, quando questo accade, ne conseguano migliore comprensione, minori eventi avversi, minor numero di procedure invasive e di ricoveri. E’ noto, inoltre, come la comunicazione del rischio sia notoriamente di scarso livello ogniqualvolta si debbano condividere decisioni personali anche passando attraverso la spiegazione e l’interpretazione di dati statistici. Gli Autori sottolineano come l’invito ad un maggiore coinvolgimento dei pazienti sul piano decisionale non abbia il fine di ridurre l’utilizzo di risorse ma di evitare i paternalismi; inoltre, pur nella frenetica attività del sovraffollato mondo della medicina d’urgenza non ci si possa comunque esimere dal garantire attenzione al giudizioso utilizzo delle risorse, all’attenzione ai tempi di attesa, ai tempi ed i costi della CT, nonché a quelli della refertazione, ed al rischio di sovra-diagnosticare, di sovra-trattare e di danno iatrogeno.

In conclusione, quindi, GCS e sintomi neurologici sono i fattori predittivi di esito avverso di cui tenere conto nei soggetti in terapia con warfarin che riportino un trauma cranico. L’INR non condiziona il rischio di emorragia intracranica. Una sola linea guida non sembra poter essere univocamente valida ed appropriata per tutti i casi. Gli Autori sostengono che, dato l’elevato grado di variabilità in questo contesto, sia necessario ed opportuno proporre un approccio individualizzato secondo il quale, in alcuni casi con trauma cranico lieve a basso rischio (ad esempio nei soggetti asintomatici con GCS 15), ci si possa legittimamente ed appropriatamente astenere dall’esecuzione della CT, dopo una chiara e dettagliata discussione personalizzata del rapporto tra rischi e benefici condotto tra medico e paziente, secondo stratificazione del rapporto tra rischi e benefici individualizzato (in particolare anamnesi e presentazione clinica) e preferenze soggettive.

 

Is the Liberal Use of Oxygen Associated With Worse Outcomes Among Critically Ill Patients?

Gottlieb M, Goldstein C, Ward EJ.

Ann Emerg Med. 2019 Feb;73(2):180-182. doi: 10.1016/j.annemergmed.2018.07.018. 

General Medicine / Systematic Review Snapshot.

 

[ in riferimento a: Mortality and morbidity in acutely ill adults treated with liberal versus conservative oxygen therapy (IOTA): a systematic review and meta-analysis.

Chu DKKim LHYoung PJ, et Al.

Lancet. 2018 Apr 28;391(10131):1693-1705. doi: 10.1016/S0140-6736(18)30479-3. ]

 

Vado “contro natura”, recensendo questo lavoro ed il prossimo, smentendo la “sacralità” dell’ossigeno nel mondo dei pazienti critici della Medicina d’Emergenza – Urgenza.

Questa è sintesi e commento di una metanalisi e revisione sistematica degli studi relativi alle diverse modalità di utilizzo dell’ossigenoterapia nei pazienti critici adulti, focalizzando l’attenzione sull’esito in termini di mortalità e disabilità (scala di Rankin modificata, rischio di polmonite o altre infezioni ospedaliere, durata del ricovero).

Sono state definite due diverse modalità di erogazione di ossigeno supplementare: una con target superiore (cosiddetta “liberale”, con FiO2 mediana di 0.52, range da 0.28 a 1, corrispondente in pratica a 6 l/min erogati da una maschera facciale), ed una con target inferiore (”conservativa”, FiO2 mediana di 0.21, range da 0.21 a 0.50, corrispondente per lo più all’aria ambiente).

Gli Autori hanno considerato 25 studi (4 con cannule nasali, 13 maschere facciali, 8 con ventilazione invasiva), estremamente variegati e disomogenei, svolti su di un totale di 16037 pazienti, di età media di 64 anni, il 64% di genere maschile.

Dal confronto emerge come, rispetto alla strategia conservativa, quella liberale correli con aumentata mortalità (intra-ospedaliera, a 30 giorni ed al più lungo follow up) senza invece apportare benefici rilevanti su altri aspetti dell’esito (morbilità, tasso di infezioni); non emergono differenze significative al riguardo neppure all’analisi di sottogruppi (quali, ad esempio, terapia intensiva versus non terapia intensiva, somministrazione di ossigeno invasiva versus non invasiva, durata del supporto di ossigeno, presenza o assenza di ipossiemia al punto zero).

Questa analisi si inscrive tra i numerosi studi che nel tempo recente stanno cercando di mettere ordine nell’ossigenoterapia nel paziente adulto, discutendone il rapporto tra rischi e benefici, e sottolineando in particolare i rischi, sino a poco tempo fa del tutto sottovalutati, dell’iperossiemia, sia in termini fisio-patologici che di esito. Emerge come per ogni 1% di aumento nella pulsossimetria si abbia un 25% di aumento di rischio nella mortalità intraospedaliera (17% al più lungo follow up), con un number needed to harm in termini di mortalità pari a 71.

   

In Patients With Acute Myocardial Infarction and No Hypoxemia, Does Oxygen Therapy Improve Outcomes Compared With No Supplemental Oxygen?

Long B, April MD.

Ann Emerg Med. 2019 Apr;73(4):403-405. doi: 10.1016/j.annemergmed.2018.04.015. 

Cardiology / Systematic Review Snapshot.

 

[ in riferimento a: Oxygen therapy in patients with acute myocardial infarction: a systematic review and meta-analysis.

Abuzaid A, Fabrizio C, Felpel K, et Al.

Am J Med. 2018 Jun;131(6):693-701. doi: 10.1016/j.amjmed.2017.12.027 ]

 

Discussione ragionata di una revisione sistematica e metanalisi della letteratura sull’utilizzo dell’ossigeno nei soggetti adulti affetti da infarto miocardico e senza ipossiemia: sono stati inclusi 7 trials clinici randomizzati con un totale di 3842 pazienti che hanno ricevuto ossigeno supplementare e 3860 non trattati con ossigenoterapia.

Non emerge, dal ricorso all’ossigeno in questi casi, alcun beneficio in termini di esito. Allo stesso modo non vi sono evidenze che la supplementazione di ossigeno sia dannosa nello stesso contesto.

L’ossigeno è storicamente sempre stato utilizzato di routine nei casi di infarto miocardico nel contesto della Medicina d’Urgenza, in accordo con le raccomandazioni provenienti dalle linee guida delle principali Società Scientifiche (American College of Cardiology, American Heart Association, con classe IIa e livello di evidenza C per l’utilizzo dell’ossigeno nelle prime 6 ore dello STEMI), con l’obiettivo di garantire livelli di ossiemia tali da ridurre il danno miocardico; d’altro canto sappiamo bene che l’iperossia può aumentare lo stress ossidativo e la vasocostrizione coronarica peggiorando così il danno miocardico stesso.

Gli Autori sottolineano come gli studi inclusi in questa analisi siano estremamente eterogenei nella qualità, che la gran parte delle pubblicazioni si riferisca agli STEMI (con conclusioni che non possono quindi essere automaticamente estese a NSTEMI ed angina instabile), e che, soprattutto, la definizione stessa di ipossiemia sia differente tra gli studi (< 90, 92 o 94%).

L’ossigenoterapia supplementare, quindi, nei soggetti con infarto miocardico e normale saturazione in ossigeno dell’emoglobina, non si è dimostrata in grado di ridurre il rischio né di mortalità, né ischemia recidiva o infarto miocardico, né insufficienza cardiaca, né aritmia.

 

What Physiologic Parameters Are Indicative of Severe Injury in Trauma?

Long B, April MD.

Ann Emerg Med. 2019 Jan;73(1):76-78. doi: 10.1016/j.annemergmed.2018.06.014.

Trauma / Systematic Review Snapshot.

 

[ in riferimento a: Physiologic Predictors of Severe Injury: Systematic Review.

Totten AMCheney TPO’Neil MEet Al.

Rockville (MD): Agency for Healthcare Research and Quality (US); 2018 Apr. Report No.: 18-EHC008-EF.
AHRQ Comparative Effectiveness Reviews. ]

 

Valutazione e commento di una revisione sistematica e metanalisi riguardante gli studi che hanno valutato il significato, il ruolo e l’impatto dei parametri fisiologici (circolatori, respiratori, livello del sensorio) nei pazienti affetti da trauma, al fine di identificare i casi più severi in termini di utilizzo di risorse (trasfusioni, ricovero in ambiente intensivistico, procedure salvavita), entità del danno anatomico (Injury Severity Score) e mortalità.

Gli Autori hanno incluso nell’analisi 138 articoli, relativi a 134 studi francamente eterogenei, dei quali 96 retrospettivi (ed i restanti prospettici), complessivamente con scarsa forza di evidenza; ne è emerso come i parametri fisiologici abbiano elevata specificità ma scarsa sensibilità per quanto riguarda la severità del trauma: la combinazione tra Scala del Coma di Glasgow, età e pressione arteriosa configura la migliore performance in tal senso (area sotto la curva ROC 96%). Nessun singolo parametro ha infatti dimostrato di essere dotato di sensibilità tale da poter escludere di per sé un trauma severo, mentre tanti (pressione arteriosa sistolica < 90 mmHg, frequenza cardiaca > 110 ppm, indice di shock > 1, frequenza respiratoria < 10 bpm o > 29) hanno mostrato di possedere adeguata specificità.

Nella miriade di parametri proposti in letteratura per predire e stratificare la severità dei casi affetti da trauma, questi criteri (la combinazione tra GCS, età e pressione arteriosa) possono perciò essere utili ed utilizzabili sin dalla fase di triage, fondamentale ed insostituibile per garantire un approccio precoce mirato ai casi più severi, evitando, sia in fase pre-ospedaliera che ospedaliera, sia l’under-triage che l’over-triage, entrambi strettamente correlati all’esito.

Dissezione aortica acuta, iter diagnostico in casi di trauma cranico nei pazienti in trattamento con warfarin e utilizzo dell’ossigeno nei soggetti adulti affetti da infarto miocardico e senza ipossiemia: sono alcuni degli argomenti della nostra rassegna bibliografica più recente.

 

What Signs Increase the Likelihood of Acute Aortic Dissection? 

Chien N, Casey PE, Gottlieb M.

Ann Emerg Med. 2019 Apr;73(4):400-402. doi: 10.1016/j.annemergmed.2018.03.026. 

Cardiology / Systematic Review Snapshot.

 

[ in riferimento a: Clinical examination for acute aortic dissection: a systematic review and meta-analysis.

Ohle R, Kareemi HK, Wells G, Perry JJ.

Acad Emerg Med 2018 Apr;25(4):397-412. doi: 10.1111/acem.13360 ]

 

La dissezione aortica acuta (AAD) è una condizione rara, la cui mortalità aumenta dell’1-2% per ogni ora che passa dopo la sua presentazione; la diagnosi è particolarmente complessa e difficoltosa, data la sintomatologia aspecifica, le multiple diagnosi differenziali possibili e l’estrema variabilità clinica nella presentazione, tanto da sfuggire ai medici d’urgenza fino al 38% dei casi secondo quanto riportato in letteratura.

Viene qui discussa e commentata una revisione sistematica e metanalisi che ha valutato la letteratura relativa ai casi, nel Dipartimento di Emergenza, di pazienti adulti con sospetto di AAD, nei quali fossero disponibili informazioni anamnestiche e dati obiettivi: sono stati inclusi e presi in considerazione 9 studi (3 dei quali condotti in Italia), di cui 6 prospettici e 3 retrospettivi, su un totale di 2400 pazienti, con prevalenza di AAD tra il 21.9 ed il 76.1%.

Risultano essere segni clinici suggestivi di AAD il deficit neurologico focale sensitivo o motorio, il deficit nel polso e l’ipotensione (definita come pressione arteriosa sistolica < 90 mmHg o segni di shock). La presenza di altri segni clinici ed obiettivi tradizionalmente associati alla AAD (dolore irradiato al rachide, dolore lacerante o squarciante, edema polmonare, soffio da insufficienza aortica, pressione arteriosa sistolica alla presentazione > 150 mmHg, anamnesi di ipertensione arteriosa, sincope, dolore toracico, dolore addominale, dolore migrante) non risulta invece avere potere predittivo tale da incidere sostanzialmente sulla probabilità di AAD. L’assenza di allargamento del mediastino alla radiografia del torace può identificare un ridotto rischio di AAD. Per quanti da alcuni studi emergano risultati con alta specificità, in grado quindi di aumentare il sospetto di AAD, la sensibilità risulta sempre inadeguata nell’escludere la AAD stessa. 

Tra i sistemi a punteggio per la stratificazione del rischio, l’American Heart Association Aortic Dissection Detection Score < 1 si dimostra utile per ridurre il sospetto di AAD (per quanto il 5.9% dei pazienti con score = 0 presenti comunque la AAD); in un recente studio lo score pari a 0 associato alla negatività del D-dimero (< 500 ng/dl) ha identificato un rischio di AAD dello 0,3%. Lo score di Von Kodolitsch, invece, è costituito da 3 variabili (dolore ad insorgenza acuta lacerante e squarciante, allargamento del mediastino alla radiografia del torace, asimmetria nel polso o nella pressione arteriosa) e risulta utile solo se tutte e 3 sono presenti o tutte e 3 assenti.

Tra i limiti degli studi considerati, gli Autori della metanalisi sottolineano come: non vi sia uno standard di riferimento diagnostico condiviso (aortografia, tomografia computerizzata, risonanza magnetica); non vi sia una definizione condivisa di deficit nel polso o dolore; non venga chiarito se né come i trattamenti praticati possano avere inciso su segni e sintomi; la prevalenza di AAD sia superiore a quella che si osserva usualmente sul campo, il che può limitare la possibilità di estendere ed applicare questi risultati ad una classica popolazione a basso rischio come quella dei Dipartimenti di Emergenza.

In conclusione, secondo gli Autori: la presenza di ipotensione, deficit nel polso e deficit neurologico focale aumenta la probabilità di AAD (la combinazione di dati che emergano dall’anamnesi e dall’esame obiettivo può aumentare quindi l’accuratezza diagnostica); un punteggio pari a 0 nell’Aortic Dissection Detection score ne riduce invece la probabilità, può essere utilizzato per stratificare i casi a basso rischio ma non dovrebbe essere utilizzato da solo per escludere la diagnosi.

 

Understanding the management of patients with head injury taking warfarin: who should we scan and when? Lessons from the AHEAD study.

Mason MS, Evans R, Kuczawski M.

Emerg Med J. 2019 Jan;36(1):47-51. doi: 10.1136/emermed-2018-207621.

Review.

 

[ in riferimento a: AHEAD study: an observational study of the management of anticoagulated patients who suffer head injury.

Mason S, Kuczawski M, Teare MD, et Al.

BMJ Open 2017;7:e014324. ]

 

Interessante revisione della letteratura, scritta, a mio parere (che se ne condividano o meno lo spirito e le conclusioni), in modo critico costruttivo, che merita la lettura integrale, se non dal punto di vista clinico e metodologico, quantomeno da quello speculativo.

Non vi è consenso a tutt’oggi né vi sono chiare raccomandazioni da linee guida (date le evidenze scarse sia sul piano quantitativo che qualitativo), su quale sia l’iter diagnostico e gestionale più appropriato in casi di trauma cranico nei pazienti in trattamento con warfarin. La questione in ballo è in pratica: quale sia il rischio, quale il rischio accettabile, e se sia realmente possibile ipotizzare un approccio univoco che possa andare bene per ogni singolo caso.

Molte delle più note cosiddette “clinical decision rules” (CDR) (quali, ad esempio, CCHR e NOC) non prendono in considerazione i soggetti in trattamento anticoagulante; molte altre (NEXUS, ACEP, EFNS, The Study Group of Head Injury of The Italian Society for Neurosurgery, Scandinavian, NICE) raccomandano l’esecuzione di una tomografia computerizzata (CT) in tutti i casi in terapia anticoagulante, indipendentemente dai sintomi. Queste CDR hanno un elevato grado di sensibilità e basso livello di specificità; quando l’uno cala, l’altro aumenta; l’evidenza è scarsa e le metodologie con cui gli studi sono stati condotti sono eterogenee; questa carenza nelle evidenze lascia il clinico privo di chiare certezze alle quali appoggiarsi per definire univocamente il livello di rischio e la più appropriata strategia gestionale per il singolo individuo.

Gran parte della discussione di questa revisione si incentra sullo studio AHEAD dal quale è emerso in particolare come i soggetti che assumano warfarin, abbiano riportato un trauma cranico lieve (GCS 15) e non presentino sintomi ad esso correlati, abbiano un rischio di eventi avversi estremamente ridotto (2.7%).

AHEAD è uno studio prospettico osservazionale del 2016 che ha valutato 3534 pazienti adulti con trauma cranico non penetrante, già in terapia con warfarin, giunti a 33 Dipartimenti di Emergenza (ED) di Inghilterra e Scozia: una CT è stata eseguita nel 59.8% dei casi, con riscontro di quadri anomali intracranici imputabili al trauma nel 5.4%, tasso di eventi avversi del 5.9% tra i quali necessità di trattamento neuro-chirurgico (0.5%), nuovo accesso per rivalutazione in riferimento ad eventi correlati al trauma cranico (1.0%) e mortalità correlata al trauma (1.2%). Il GCS < 15 (presente nell’11.1% dei casi) risulta essere il principale fattore predittivo di esito avverso (rischio relativo pari a 4.82; pari a 10.53 se GCS ≤ 12). Sintomi neurologici associati al trauma cranico (perdita di coscienza, vomito, amnesia, ed in misura meno significativa anche la cefalea) correlano in modo significativo con l’aumentato rischio di esito avverso, anche nei casi con GCS = 15. Viceversa, l’assenza di uno qualunque dei sintomi sopra riportati nei casi con GCS 15 configura un rischio di eventi avversi del 2.7%. Inoltre, tra i risultati più interessanti vi è anche che l’INR non correli in alcun modo con l’esito, e che il tasso di complicanze tardive risulta decisamente basso (nuovo accesso al ED nell’1.1%, decesso imputabile a complicanze del traumatismo nel 0.6%). Sottoporre a CT tutti i soggetti con trauma cranico in terapia con warfarin configura quindi un elevato rapporto tra costi e benefici (in termini di costo per anno di vita aggiustato per qualità). Da notare inoltre come nello studio AHEAD non venga considerato né esplicitato il GCS di base dei pazienti inclusi.

Nello studio AHEAD il rischio è definito come prodotto tra la probabilità che un evento occorra e la severità delle sue conseguenze, e la severità delle conseguenze varia da una lieve contusione sino ad un sanguinamento inoperabile cui consegue il decesso; questa modalità di definizione è essenziale nello strutturare metodologicamente lo studio in modo rigoroso, ma ne limita inevitabilmente l’applicabilità clinica in termini decisionali sul singolo paziente. Anche il concetto di “rischio accettabile” differisce tra medico e medico, e tra medico e paziente; più spesso di quanto crediamo, infatti, i pazienti sarebbero disposti ad accettare per sé un più elevato livello di rischio, e desiderano e preferiscono essere coinvolti direttamente ed esplicitamente nel processo decisionale: vi è evidenza che, quando questo accade, ne conseguano migliore comprensione, minori eventi avversi, minor numero di procedure invasive e di ricoveri. E’ noto, inoltre, come la comunicazione del rischio sia notoriamente di scarso livello ogniqualvolta si debbano condividere decisioni personali anche passando attraverso la spiegazione e l’interpretazione di dati statistici. Gli Autori sottolineano come l’invito ad un maggiore coinvolgimento dei pazienti sul piano decisionale non abbia il fine di ridurre l’utilizzo di risorse ma di evitare i paternalismi; inoltre, pur nella frenetica attività del sovraffollato mondo della medicina d’urgenza non ci si possa comunque esimere dal garantire attenzione al giudizioso utilizzo delle risorse, all’attenzione ai tempi di attesa, ai tempi ed i costi della CT, nonché a quelli della refertazione, ed al rischio di sovra-diagnosticare, di sovra-trattare e di danno iatrogeno.

In conclusione, quindi, GCS e sintomi neurologici sono i fattori predittivi di esito avverso di cui tenere conto nei soggetti in terapia con warfarin che riportino un trauma cranico. L’INR non condiziona il rischio di emorragia intracranica. Una sola linea guida non sembra poter essere univocamente valida ed appropriata per tutti i casi. Gli Autori sostengono che, dato l’elevato grado di variabilità in questo contesto, sia necessario ed opportuno proporre un approccio individualizzato secondo il quale, in alcuni casi con trauma cranico lieve a basso rischio (ad esempio nei soggetti asintomatici con GCS 15), ci si possa legittimamente ed appropriatamente astenere dall’esecuzione della CT, dopo una chiara e dettagliata discussione personalizzata del rapporto tra rischi e benefici condotto tra medico e paziente, secondo stratificazione del rapporto tra rischi e benefici individualizzato (in particolare anamnesi e presentazione clinica) e preferenze soggettive.

 

Is the Liberal Use of Oxygen Associated With Worse Outcomes Among Critically Ill Patients?

Gottlieb M, Goldstein C, Ward EJ.

Ann Emerg Med. 2019 Feb;73(2):180-182. doi: 10.1016/j.annemergmed.2018.07.018. 

General Medicine / Systematic Review Snapshot.

 

[ in riferimento a: Mortality and morbidity in acutely ill adults treated with liberal versus conservative oxygen therapy (IOTA): a systematic review and meta-analysis.

Chu DKKim LHYoung PJ, et Al.

Lancet. 2018 Apr 28;391(10131):1693-1705. doi: 10.1016/S0140-6736(18)30479-3. ]

 

Vado “contro natura”, recensendo questo lavoro ed il prossimo, smentendo la “sacralità” dell’ossigeno nel mondo dei pazienti critici della Medicina d’Emergenza – Urgenza.

Questa è sintesi e commento di una metanalisi e revisione sistematica degli studi relativi alle diverse modalità di utilizzo dell’ossigenoterapia nei pazienti critici adulti, focalizzando l’attenzione sull’esito in termini di mortalità e disabilità (scala di Rankin modificata, rischio di polmonite o altre infezioni ospedaliere, durata del ricovero).

Sono state definite due diverse modalità di erogazione di ossigeno supplementare: una con target superiore (cosiddetta “liberale”, con FiO2 mediana di 0.52, range da 0.28 a 1, corrispondente in pratica a 6 l/min erogati da una maschera facciale), ed una con target inferiore (”conservativa”, FiO2 mediana di 0.21, range da 0.21 a 0.50, corrispondente per lo più all’aria ambiente).

Gli Autori hanno considerato 25 studi (4 con cannule nasali, 13 maschere facciali, 8 con ventilazione invasiva), estremamente variegati e disomogenei, svolti su di un totale di 16037 pazienti, di età media di 64 anni, il 64% di genere maschile.

Dal confronto emerge come, rispetto alla strategia conservativa, quella liberale correli con aumentata mortalità (intra-ospedaliera, a 30 giorni ed al più lungo follow up) senza invece apportare benefici rilevanti su altri aspetti dell’esito (morbilità, tasso di infezioni); non emergono differenze significative al riguardo neppure all’analisi di sottogruppi (quali, ad esempio, terapia intensiva versus non terapia intensiva, somministrazione di ossigeno invasiva versus non invasiva, durata del supporto di ossigeno, presenza o assenza di ipossiemia al punto zero).

Questa analisi si inscrive tra i numerosi studi che nel tempo recente stanno cercando di mettere ordine nell’ossigenoterapia nel paziente adulto, discutendone il rapporto tra rischi e benefici, e sottolineando in particolare i rischi, sino a poco tempo fa del tutto sottovalutati, dell’iperossiemia, sia in termini fisio-patologici che di esito. Emerge come per ogni 1% di aumento nella pulsossimetria si abbia un 25% di aumento di rischio nella mortalità intraospedaliera (17% al più lungo follow up), con un number needed to harm in termini di mortalità pari a 71.

   

In Patients With Acute Myocardial Infarction and No Hypoxemia, Does Oxygen Therapy Improve Outcomes Compared With No Supplemental Oxygen?

Long B, April MD.

Ann Emerg Med. 2019 Apr;73(4):403-405. doi: 10.1016/j.annemergmed.2018.04.015. 

Cardiology / Systematic Review Snapshot.

 

[ in riferimento a: Oxygen therapy in patients with acute myocardial infarction: a systematic review and meta-analysis.

Abuzaid A, Fabrizio C, Felpel K, et Al.

Am J Med. 2018 Jun;131(6):693-701. doi: 10.1016/j.amjmed.2017.12.027 ]

 

Discussione ragionata di una revisione sistematica e metanalisi della letteratura sull’utilizzo dell’ossigeno nei soggetti adulti affetti da infarto miocardico e senza ipossiemia: sono stati inclusi 7 trials clinici randomizzati con un totale di 3842 pazienti che hanno ricevuto ossigeno supplementare e 3860 non trattati con ossigenoterapia.

Non emerge, dal ricorso all’ossigeno in questi casi, alcun beneficio in termini di esito. Allo stesso modo non vi sono evidenze che la supplementazione di ossigeno sia dannosa nello stesso contesto.

L’ossigeno è storicamente sempre stato utilizzato di routine nei casi di infarto miocardico nel contesto della Medicina d’Urgenza, in accordo con le raccomandazioni provenienti dalle linee guida delle principali Società Scientifiche (American College of Cardiology, American Heart Association, con classe IIa e livello di evidenza C per l’utilizzo dell’ossigeno nelle prime 6 ore dello STEMI), con l’obiettivo di garantire livelli di ossiemia tali da ridurre il danno miocardico; d’altro canto sappiamo bene che l’iperossia può aumentare lo stress ossidativo e la vasocostrizione coronarica peggiorando così il danno miocardico stesso.

Gli Autori sottolineano come gli studi inclusi in questa analisi siano estremamente eterogenei nella qualità, che la gran parte delle pubblicazioni si riferisca agli STEMI (con conclusioni che non possono quindi essere automaticamente estese a NSTEMI ed angina instabile), e che, soprattutto, la definizione stessa di ipossiemia sia differente tra gli studi (< 90, 92 o 94%).

L’ossigenoterapia supplementare, quindi, nei soggetti con infarto miocardico e normale saturazione in ossigeno dell’emoglobina, non si è dimostrata in grado di ridurre il rischio né di mortalità, né ischemia recidiva o infarto miocardico, né insufficienza cardiaca, né aritmia.

 

What Physiologic Parameters Are Indicative of Severe Injury in Trauma?

Long B, April MD.

Ann Emerg Med. 2019 Jan;73(1):76-78. doi: 10.1016/j.annemergmed.2018.06.014.

Trauma / Systematic Review Snapshot.

 

[ in riferimento a: Physiologic Predictors of Severe Injury: Systematic Review.

Totten AMCheney TPO’Neil MEet Al.

Rockville (MD): Agency for Healthcare Research and Quality (US); 2018 Apr. Report No.: 18-EHC008-EF.
AHRQ Comparative Effectiveness Reviews. ]

 

Valutazione e commento di una revisione sistematica e metanalisi riguardante gli studi che hanno valutato il significato, il ruolo e l’impatto dei parametri fisiologici (circolatori, respiratori, livello del sensorio) nei pazienti affetti da trauma, al fine di identificare i casi più severi in termini di utilizzo di risorse (trasfusioni, ricovero in ambiente intensivistico, procedure salvavita), entità del danno anatomico (Injury Severity Score) e mortalità.

Gli Autori hanno incluso nell’analisi 138 articoli, relativi a 134 studi francamente eterogenei, dei quali 96 retrospettivi (ed i restanti prospettici), complessivamente con scarsa forza di evidenza; ne è emerso come i parametri fisiologici abbiano elevata specificità ma scarsa sensibilità per quanto riguarda la severità del trauma: la combinazione tra Scala del Coma di Glasgow, età e pressione arteriosa configura la migliore performance in tal senso (area sotto la curva ROC 96%). Nessun singolo parametro ha infatti dimostrato di essere dotato di sensibilità tale da poter escludere di per sé un trauma severo, mentre tanti (pressione arteriosa sistolica < 90 mmHg, frequenza cardiaca > 110 ppm, indice di shock > 1, frequenza respiratoria < 10 bpm o > 29) hanno mostrato di possedere adeguata specificità.

Nella miriade di parametri proposti in letteratura per predire e stratificare la severità dei casi affetti da trauma, questi criteri (la combinazione tra GCS, età e pressione arteriosa) possono perciò essere utili ed utilizzabili sin dalla fase di triage, fondamentale ed insostituibile per garantire un approccio precoce mirato ai casi più severi, evitando, sia in fase pre-ospedaliera che ospedaliera, sia l’under-triage che l’over-triage, entrambi strettamente correlati all’esito.