- Redazione
- Letters
Management dilemmas in acute pulmonary embolism. Robin Condliffe, et al. Thorax 2014;69:174
- X - Marzo 2014
- ISSN 2532-1285
Keywords
Articolo sintetico e di impostazione estremamente pratica, meritevole di lettura integrale. Quattordici “dilemmi clinici” affrontati come “botta e risposta” da esperti riguardo all’embolia polmonare acuta (PE) in riferimento ad una revisione delle evidenze oggigiorno disponibili ed alle esperienze cliniche condivise. E’ ovvio che ogni decisione sul singolo caso non può prescindere dallo specifico rapporto rischi/benefici né dalla logistica di quanto sia
localmente disponibile tra i diversi interventi diagnostico terapeutici possibili.
La PE è stata definita, in riferimento alla definizione di American Heart Association (AHA), come massiva in caso di ipotensione sostenuta (pressione arteriosa sistolica < 90 mmHg) per oltre 15 minuti a seguito di PE e/o necessità di inotropi e/o segni clinici di shock; sub-massiva in caso di evidenza di disfunzione ventricolare destra e/o di necrosi miocardica.
Alcuni dei 14 quesiti posti riguardano eminentemente l’attività della Medicina d’Emergenza – Urgenza e meritano in particolare di essere brevemente menzionati in queste righe. Ecco alcuni esempi.
La PE sub massiva non prevede la somministrazione routinaria della trombolisi, ma, in presenza di uno score di rischio elevato, è necessario soppesare da una parte i criteri indicativi di prognosi infausta e dall’altra i fattori di rischio di sanguinamento per stratificare il rischio ed identificare i candidati più adatti alla trombolisi stessa.
La trombolisi sistemica trova una controindicazione relativa nella recente chirurgia (fanno eccezione in tal senso la neurochirurgia, o la traumatologia, cerebrale o spinale), ma il rischio di sanguinamento si riduce nettamente quando si sia a distanza di oltre 2 settimane. Entro 1-2 settimane viene pertanto consigliato, quando disponibile, un trattamento “meccanico” della PE. Anche riguardo ad un pregresso stroke occorso nei precedenti 3-6 mesi, se
le linee guida delle principali Società Scientifiche lo vedono come controindicazione assoluta alla trombolisi, gli Autori di questo lavoro non sono concordi in tal senso, e non pare neppure possibile stabilire un timing di rischio o di sicurezza di riferimento degno di raccomandazione. La presenza di alcune lesioni endocraniche occupanti spazio, quali ad esempio i meningiomi, non influenza in alcun modo il percorso diagnostico e terapeutico che può
portare a porre indicazione alla trombolisi sistemica.
In caso di arresto cardiaco o peri-arresto, nel sospetto di PE si consiglia una valutazione ecocardiografica “point of care” mirata all’identificazione di segni di sovraccarico acuto ventricolare dx; secondo le linee guida di alcune autorevoli Società Scientifiche, la terapia raccomandata in questi casi è un bolo di 50 mg di alteplase.
In gravidanza, nella PE non massiva le dosi terapeutiche di eparina a basso peso molecolare si sono dimostrate sicure ed efficaci e non attraversano la placenta; il warfarin è teratogeno nel primo trimestre ma sconsigliato formalmente in ogni fase della gravidanza; quando si sia a meno di un mese dal termine, si può considerare il posizionamento di un filtro cavale. In caso di PE massiva la terapia raccomandata è la trombolisi.
Una dimissione precoce è possibile come esito di un’adeguata stratificazione del rischio per la quale ci si può avvalere di scores di severità di rischio; fattore necessario e non sufficiente è la garanzia di un’appropriata continuità delle cure attraverso un approccio multidisciplinare e polispecialistico di controlli evolutivi. Spesso un ricovero di 48 ore in ambiente protetto permette sia di monitorare longitudinalmente il profilo di rischio, che di puntualizzare
l’adeguatezza della terapia.
Tra i nuovi anticoagulanti orali, all’atto della pubblicazione dell’articolo, il solo rivaroxaban aveva, tra le proprie indicazioni di uso, il trattamento della PE nei casi emodinamicamente stabili.
Per il trattamento della PE asintomatica, spesso viene consigliato un trattamento sovrapponibile a quella sintomatica. Non vi è unanimità nelle raccomandazioni delle diverse principali Società Scientifiche riguardo alla PE isolata o sub-segmentale; in alcuni casi il rischio emorragico può evidentemente superare il beneficio dell’anticoagulazione, soprattutto quando non vi sia evidenza di trombosi venosa profonda.
Early cardiac catheterization is associated with improved survival in comatose survivors of cardiac arrest without STEMI. Ryan D
Hollenbeck, et al. Resuscitation 2014;85:88
Uno degli argomenti più dibattuti nell’ambito della rianimazione cardio-polmonare (CPR) riguarda le indicazioni al cateterismo cardiaco (CC) precoce con eventuale immediato intervento percutaneo coronarico (PCI) nell’arresto cardiaco (CA) con successivo ripristino della circolazione spontanea (ROSC) al di fuori dei casi di infarto mio cardico con sopraslivellamento significativo del tratto ST (STEMI). Sappiamo che il 50-62% dei casi di ROSC non
sopravvive sino alla dimissione ospedaliera per cause correlate alla cosiddetta “sindrome post-CA”, caratterizzata dalla condizione multi-organo di ischemia e riperfusione che riguarda soprattutto cuore e cervello.
Questo lavoro, retrospettivo osservazionale su dati raccolti prospetticamente, ha valutato l’impatto dal CC precoce sulla sopravvivenza dei Pazienti maggiorenni comatosi dopo ROSC da aritmia ventricolare in assenza di STEMI e trattati con ipotermia terapeutica (TH) (269 casi inclusi nello studio nel periodo tra Gennaio 2005 e Novembre 2011). Il CC è stato definito “precoce” (122 casi, cioè il 45.3%) quando eseguito immediatamente all’ammissione
in Ospedale o anche nel tempo di TH (quindi nelle prime 24 ore, tempo nel quale lo stato di coma rendeva imprevedibile l’eventuale recupero del deficit neurologico), “tardivo” (41 casi, 15.2%) quando eseguito nel restante periodo di degenza; 106 casi quindi (39.4%) non hanno ricevuto CC nel tempo di ricovero.
I casi di CC precoce:
• erano più spesso in stato di shock, trattati con supporto meccanico (ad esempio contro-pulsazione con pallone intra-aortico) e con aspirina, agenti antitrombotici e inibitori della glicoproteina IIb/IIIa;
• hanno mostrato miglior tasso di sopravvivenza (65.6% versus 48.6% nei “non precoci” e 28.6% nei non sottoposti a CC) e miglior esito neurologico (misurato secondo lo score della Cerebral Performance Category;
buon esito nel 60.7% versus 44.5% nei non precoci); il dato si è confermato anche al follow up di 5-6 mesi per entrambi i dati (sopravvivenza 60.0% vs 40.4%, buon esito neurologico 60.0% vs 39.7%)
• hanno dimostrato all’analisi multivariata una riduzione del rischio di morte (nei confronti dei tardivi, ed ancor più evidentemente dei non sottoposti a CC);
• hanno visto documentare un’occlusione coronarica acuta nel 26.2% versus 29.3% nei non precoci, e ne è stata eseguita PCI nel 32.8% versus 39.0% dei casi;
• hanno evidenziato tassi di sopravvivenza e buon esito neurologico pari a 60.0% versus 68.3% e 100% versus 62.2%, rispettivamente, in coloro che hanno ricevuto PCI rispetto ai non PCI.
Il CC precoce, quindi, risulta essere associato a miglioramento della sopravvivenza nei casi di coma post ROSC non imputabile a STEMI.
Emerge in particolare come, nei casi di CA da ritmo defibrillabile in assenza di STEMI, nel 27.0% dei casi si documentino occlusioni coronariche acute (con incidenza sostanzialmente sovrapponibile tra CC precoci e tardive).
Si tratta quindi di dover stabilire ora, migliorando la stratificazione del rischio (ad esempio valorizzando l’aver documentato fibrillazione ventricolare o tachicardia ventricolare; il dosaggio seriato delle troponine, ad esempio, invece, non pare apportare un contributo) secondo il quale avviare al CC precoce un ulteriore sottogruppo di Pazienti che ne possa beneficiare (in pratica, secondo i risultati di questo studio, 1 caso ogni 3-4 di CA da ritmo
defibrillabile con ROSC in assenza di STEMI).
Interessante è notare come una PCI precoce non correli con un miglioramento dell’esito rispetto ai casi di CC precoce senza PCI; si può pensare di interpretare il dato pensando che il CC precoce di per sé faccia parte di una maggiore intensità di cure (comprensivo, ad esempio, anche, del tempestivo posizionamento di un accesso venoso centrale, o di un monitoraggio emodinamico invasivo, o ancora di una rapida titolazione dei farmaci vasoattivi)
nella fase precoce di accesso all’Ospedale nel Dipartimento di Emergenza-Urgenza. Naturalmente è ancora una volta sottolineato come il fattore tempo faccia sempre la differenza, in particolare in relazione al breve tempo tra CA e ROSC.
Tra i limiti dello studio va ricordato come l’indicazione a procedere a CC o meno sia stata fondata su fattori clinici e non su di una randomizzazione.
Effects of emergency medical service transport on acute stroke care. J Minnerup, et al. European Journal of Neurology 2014; in press
Un importante sforzo organizzativo è stato svolto negli ultimi anni per prevenire, o quantomeno limitare, ogni forma di ritardo nella valutazione e nel trattamento dello stroke in emergenza, sia per quanto ne riguarda la fase pre- che intra-ospedaliera.
Questo studio si è interessato in particolare dell’impatto dei tempi e delle modalità di trasporto sui processi successivi, attingendo ai dati disponibili sugli anni 2010 e 2011 all’interno di un registro dedicato allo stroke (casi di stroke ischemico, emorragia intracerebrale, emorragia sub-aracnoidea, attacco ischemico transitorio, casi indefiniti) nell’area Nord-Ovest della Germania.
Dei 141474 casi inclusi, il 72% è stato trasportato con ambulanza dal Sistema di Emergenza Medica (EMS), il 28% si è invece presentato all’Ospedale con mezzi di trasporto propri.
Focalizzando l’attenzione sulla popolazione che ha fatto ricorso al EMS, comparata a quella di auto-presentazione, è emerso come essa fosse caratterizzata in particolare da: età più avanzata, genere più spesso femminile, maggiori comorbilità, minore tasso di autonomia, ma soprattutto più frequente condizione di istituzionalizzazione, più alterato livello di coscienza, maggiore presenza di emorragia sub-aracnoidea o intracerebrale. Risultavano inoltre inferiori i tempi di intervallo tra insorgenza dello stroke ed accesso sia all’Ospedale che all’esecuzione della diagnostica strumentale; i Pazienti con stroke ischemico hanno ricevuto la trombolisi più spesso (18.6% versus 2.8%) e più spesso il trattamento è stato intrapreso tra i 30 ed i 60 minuti dall’entrata in Ospedale.
In pratica, appare come la maggiore severità dei sintomi aumenti la probabilità di ricorso al EMS, garanzia di più rapido accesso all’Ospedale, alla diagnostica strumentale e di più frequente esecuzione di trombolisi nei casi di ischemia acuta; possibile spiegazione di alcuni di questi aspetti può essere “organizzativa” fondandosi sull’allerta precoce e la predisposizione di percorsi privilegiati nelle condizioni di emergenza-urgenza tempo dipendenti.
Tuttavia, dai risultati di quest’analisi, non si può dedurre in modo univoco una netta relazione causale tra trasporto con EMS e procedure diagnostico terapeutiche nei Pazienti con stroke.
The new factor Xa inhibitor: Apixaban. Sangeeta Bhanwra, Kaza Ahluwalia. Journal of Pharmacology and Pharmacotherapeutics 2014;5:12
I nuovi anticoagulanti sono oggigiorno una realtà in rapida diffusione, come alternativa agli antagonisti della vitamina K. Se da un lato abbiamo probabilmente imparato a conoscere meglio il dabigatran, vista la disponibilità di dati più cospicua e la presenza “sul mercato” da più tempo, d’altra parte stanno comparendo sulla scena in rapida sequenza i varii “xaban” (letteralmente, con un gioco di parole, inibitori del fattore Xa della coagulazione).
Uno in particolare sta catalizzando l’interesse: l’apixaban; il mese scorso, giusto per fare un esempio, tra il 16 ed il 25 febbraio sono stati pubblicati online sul sito dello European Heart Journal, come anticipo dell’imminente pubblicazione sulla rivista, 3 articoli al riguardo (Paul Dorian, et al. “Cost-effectiveness of apixaban vs. current standard of care for stroke prevention in patients with atrial fibrillation”. Sigrun Halvoren, et al. “Efficacy and safety
of apixaban compared with warfarin according to age for stroke prevention in atrial fibrillation: observations from the ARISTOTLE trial”. Michiel Coppens, et al. “Efficacy and safety of apixaban compared with aspirin in patients who previously tried but failed treatment with vitamin K antagonists: results from the AVERROES trial”).
L’apixaban è stato approvato negli Stati Uniti d’America dalla Food and Drug Administration da poco più di un anno (Dicembre 2012) per l’utilizzo clinico in caso di disordini trombotici. Come inibitore orale diretto selettivo del fattore Xa della coagulazione non è necessario monitoraggio ed ha un rapido e sicuro inizio di azione. Alla prima approvazione per la prevenzione delle complicanze trombo-emboliche dopo intervento ortopedico di posizionamento di protesi di ginocchio od anca, è seguita quello nella fibrillazione atriale (AF) per la prevenzione dello stroke e dell’embolismo.
Per quest’ultima indicazione i trial più noti pubblicati al riguardo sono l’ARISTOTLE e l’AVERROES (rispettivamente Cristopher B Granger, et al. N Eng J Med 2011;365:981 e Stuart J Connolly, et al. N Eng J Med 2011;364:806). Altri lavori hanno anche analizzato l’uso dell’apixaban nella trombosi venosa profonda per la prevenzione del tromboembolismo venoso e dell’embolia polmonare, e nella sindrome coronarica acuta e nelle condizioni rischio di ischemia ricorrente per prevenire sia la mortalità cardiovascolare, che l’infarto miocardico che lo stroke ischemico.
L’utilizzo più frequente del farmaco, ed anche quello che al momento ci interessa di più come Medici d’Urgenza, è quello nella AF. I due studii sopra menzionati al riguardo hanno rispettivamente dimostrato per l’apixaban (5 mg 2 volte al dì): rispetto al warfarin la maggiore efficacia (anche in termini di mortalità) ed il minore rischio emorragico, e rispetto all’ASA (81-342 mg al dì) nei Pazienti che hanno rifiutato gli antagonisti dalla vitamina K o non
erano candidabili ad essi l’efficacia in per la riduzione del rischio di stroke ed embolismo sistemico a fronte di un lieve e non statisticamente significativo incremento dei sanguinamenti maggiori.
La sicurezza del profilo farmaco-cinetico è l’aspetto che più ne sta garantendo il successo. L’escrezione è per lo più epato-biliare (75%) ed avviene per circa il 25% per via renale; l’emivita è di circa 12 ore e l’azione si esplica circa 3 ore dopo l’assunzione. L’utilizzo non è indicato in gravidanza per la capacità (condivisa anche dal rivaroxaban) di attraversare la barriera placentare. L’evento avverso riportato più di frequente è il sanguinamento, come noto per gli inibitori del fattore Xa, e riportato come inferiore rispetto agli altri anticoagulanti orali; altri effetti riportati sono reazioni da iper-sensibilità, sincope, nausea, capogiri ed altri in misura inferiore. La cautela necessaria per le interazioni con altri farmaci risulta minore rispetto al rivaroxaban. Allo stesso modo anche le interazioni col cibo sono minime. Va comunque raccomandata cautela nell’uso in caso di insufficienza epatica o renale, ma nei casi
di insufficienza lieve non è necessaria alcuna modificazione del dosaggio o della posologia.
Da tenere in considerazione, in caso di sanguinamento, sono: l’assenza di antidoti efficaci, l’inutilità anche dell’emodialisi (dato l’elevato livello di legame del farmaco con le proteine plasmatiche), e la durata di effetto che si mantiene sino a 24 ore dopo l’assunzione dell’ultima dose del farmaco. Per antagonizzarne l’effetto è consigliato l’uso dei complessi protrombinici concentrati.
Timing of noninvasive ventilation failure: causes, risk factors, and potential remedies. Ezgi Ozyilmaz, et al. MBC Pulmonary Medicine 2014;14:19
Originale lavoro, quantomeno creativo per il punto di vista estremamente “concreto”, che focalizza l’attenzione sulla valutazione, il riconoscimento, il trattamento e la risoluzione dei casi in cui la ventilazione noninvasiva (NIV) fallisce.
L’articolo è assolutamente ben leggibile e, per chi fosse interessato all’argomento, può meritare la lettura integrale. Definito il fallimento come necessità di intubazione tracheale o decesso, gli Autori identificano tre momenti principali nei quali suddividerne i casi, date le differenze in termini di caratteristiche, cause, problematiche correlate e possibili soluzioni: immediato (dai primi minuti ed entro la prima ora; riguarda circa il 15% dei casi), precoce (tra 1 e 48 ore; 68% dei casi) e tardivo (oltre le 48 ore; 17%).
I fallimenti definiti come “immediati”, in pratica quelli che più interessano il Medico d’Urgenza, sono spesso imputabili a ridotto riflesso della tosse e/o eccessive secrezioni (in tal caso viene consigliata una fibro-broncoscopia precoce e la precoce aspirazione delle secrezioni stesse), presenza di encefalopatia ipercapnica e coma (si consiglia un’elevata frequenza di back-up e/o la scelta di una modalità di ventilazione come la PCV – ventilazione
pressometrica controllata -, e si raccomanda la riduzione dei livelli di FiO2), intolleranza ed agitazione psicomotoria (si raccomanda un’adeguata gestione dell’interfaccia e si consiglia una cauta sedazione, ad esempio con remifentanil o desmedetomidina), dissincronia/asincronia tra ventilatore e Paziente (ricordando che la diagnosi di questa eventualità è puramente clinica, le due cause più frequenti sono l’elevato livello di supporto ventilatorio e
le abbondanti perdite dall’interfaccia; l’intervento sta nell’ottimizzare i parametri di ventilazione servendosi delle informazioni fornite dal ventilatore stesso, anche modificando la sensibilità del trigger o il livello di PEEP, minimizzare le perdite, scegliere il modello di ventilatore più adatto).
Non mi dilungo sui casi di fallimento “precoce” della NIV, per i quali gli Autori fanno un distinguo tra le condizioni di insufficienza respiratoria (RF) ipossiemica o ipercapnica. Gli insuccessi in caso di RF ipossiemica sono spesso imputabili a: marcata alterazione dei parametri emo-gasanalitici (o all’incapacità di correggerla), presenza di ARDS o polmonite acquisita in comunità, edema polmonare acuto cardiogeno, condizioni patologiche con elevato punteggio agli scores di severità (SOFA, APACHE II, SAPS II, ecc), forme di sepsi ed insufficienza multi-organo (spesso correlate ad RF acuta de-novo), aumentata frequenza respiratoria (anche dopo un’ora di NIV, soprattutto quando si identifichi un pattern respiratorio di tipo rapido e superficiale), o altri possibili diversi fattori (tra i quali non va dimenticato, soprattutto, il ritardo tra accesso all’Ospedale ed inizio del trattamento ventilatorio noninvasivo.
Nelle condizioni di fallimento tardivo con RF ipercapnica, alcuni casi richiamano sostanzialmente quanto detto per gli ipossiemici (marcata alterazione dei parametri emo-gasanalitici, condizioni patologiche con elevato punteggio agli scores di severità, aumentata frequenza respiratoria), ma vi sono anche altre situazioni rilevanti in particolare nell’ambito delle multiple comorbilità e delle loro associazioni in grado di portare ad un nefasto circolo vizioso.
Credo ci sia già carne al fuoco più che a sufficienza; perciò non mi soffermo oltre sui casi di insuccesso definiti come “tardivi”, che spesso non interessano direttamente il Medico d’Urgenza.
Riassunto, recensione e commento a cura di Rodolfo Ferrari. Medicina d’Urgenza e Pronto Soccorso. Policlinico Sant’Orsola – Malpighi. Azienda Ospedaliero Universitaria di Bologna.