Family presence, tra aspirazioni, desideri e realtà organizzativa

L’articolo di Monti, Prati e Calligari pubblicato su questo numero della rivista descrive aspetti interessanti, quanto tipici della common practice in emergenza-urgenza nel nostro paese. Posta di fronte a domande molto dirette relative alla family presence durante manovre di varia intensità, la maggioranza degli operatori del settore (medici ed infermieri) risponde di non consentire abitualmente ai famigliari di presenziare durante le procedure erogate ai loro cari, specialmente se si tratta di manovre rianimatorie. È interessante notare che, al di là delle consuetudini, la maggior parte degli intervistati riterrebbe utile la presenza dei famigliari alle manovre sanitarie, purchè non particolarmente invasive, in quanto essa potrebbe costituire un facilitatore del rapporto con l’utenza e, anzi, desidererebbero essere presenti a manovre sanitarie erogate ai loro stessi cari. Non solo, ma più della metà degli operatori è convinto che il famigliare al quale non sia consentito di rimanere vicino al proprio congiunto durante l’intervento potrebbe crearsi un’idea distorta e negativa dell’operato dei sanitari.

Quando, infine, agli intervistati viene richiesto se esistano, presso i loro servizi procedure scritte che disciplinano il comportamento da tenere rispetto alla family presence durante le fasi assistenziali, la quasi totalità risponde negativamente.

In uno studio prospettico randomizzato multicentrico, il primo con queste finalità e caratteristiche, Jabre et al hanno randomizzato 570 famigliari di pazienti assistiti dai servizi dell’emergenza territoriale francese sottoposti a rianimazione cardio-polmonare per arresto cardiaco ad essere sistematicamente invitati ad assistere alle manovre o ad assistere ad esse solo su richiesta dei famigliari stessi (Jaber et al. Family presence during cardiopulmonary resuscitation. N Engl J Med 2013; 368. 1008-18.

L’endpoint primario era la prevalenza di famigliari con sindrome da stress post-traumatico a distanza di 90 giorni. Endpoints secondari includevano la prevalenza di sintomi d’ansia o depressione e gli effetti della family presence sull’efficacia dello sforzo rianimatorio da parte dei soccorritori, sullo stato emotivo dei soccorritori e l’evenienza di contenzioso medico-legale. Nei risultati, la sindrome da stress post-traumatico, così come i sintomi di ansia e depressione erano significativamente più rappresentati nel gruppo di controllo rispetto al gruppo di intervento; la presenza dei famigliari alle manovre di rianimazione cardiopolmonare non risultava avere un impatto sulla qualità dell’intervento o sulla sopravvivenza dei pazienti né sullo stato emotivo dei soccorritori. Di interesse l’esiguità del contenzioso medico-legale nel gruppo di intervento.

Questo studio ha suscitato reazioni differenti e alcuni rilievi di carattere metodologico tra cui la non estendibilità dei risultati a priori alla realtà intraospedaliera e ad altri paesi, la necessità di una precisa preparazione dei team alle tecniche di comunicazione, la mancanza di informazioni su fattori predittivi caratteristici della famiglia che consentano di prevedere l’efficacia della presenza alle manovre, il dubbio che l’effetto benefico della family presence dipenda dalla bravura dell’operatore addetto alla comunicazione piuttosto che alla presenza stessa.

Tuttavia, nel caso della morte cardiaca improvvisa, offrire alle famiglie la possibilità di assistere alle manovre rianimatorie può ridurre l’entità delle ricadute psicologiche che dovranno affrontare e questa strategia obbliga ad una maggiore attenzione i sanitari, i ricercatori ed i legislatori.
Nel commento al lavoro pubblicato su questo numero della rivista, gli autori ben descrivono una sorta di dissonanza che viene a crearsi tra il modo di pensare e di sentire dei sanitari impegnati nell’emergenza-urgenza e la realtà organizzativa, indicata come soluzione di continuo tra il modo di pensare della maggioranza degli operatori che negli anni è evoluta, divenendo più aperta ai bisogni dei famigliari, e modalità lavorative cristallizzate nel tempo, difficili da cambiare.

Come dimostrato dal lavoro di Jaber, ulteriori studi dovrebbero migliorare la nostra comprensione del perché la scelta della family presence possa costituire un elemento di miglioramento della nostra pratica quotidiana venendo a fornire quel quid di energia necessario a cambiare le consuetudini lavorative e tradursi in procedure operative consolidate a disposizione dell’operatore dell’emergenza-urgenza e dei famigliari delle vittime di arresto cardiaco o altre condizioni sottoposte a manovre di rianimazione cardio-polmonare.