Unstable Angina. Is It Time for a Requiem? Eugene Braunwald, David A. Morrow. Circulation 2013; 127: 2452

Unstable Angina. Is It Time for a Requiem? Eugene Braunwald, David A. Morrow. Circulation 2013; 127: 2452

Questa interessantissima review ci racconta la storia dell’angina instabile (UA) a partire dagli anni ’30 del secolo scorso, perché questa storia è essenziale ed indispensabile per comprendere a che punto siamo nell’iter di gestione di quei pazienti che, nell’ambito della cardiopatia ischemica sintomatica, si situano in quella zona grigia continua compresa tra l’angina stabile da una parte e l’infarto miocardico (MI) dall’altra.
Se definiamo la diagnosi di UA (World Health Organization, 2008) in presenza di sintomi di ischemia di nuova comparsa o in evoluzione peggiorativa (dal punto di vista quantitativo o qualitativo) e riscontro di modificazione in senso ischemico dell’ECG, in assenza di alterazione dei biomarcatori, ci rendiamo conto di quanto in particolare i nuovi marcatori di cardiomiocitonecrosi stiano cambiando lo scenario.
La disponibilità di biomarcatori sempre più sensibili da un lato permette una sempre più fine stratificazione del rischio (sia di mortalità che di eventi avversi), e dall’altro, in pratica, aumenta la probabilità che un paziente che sino a ieri avrebbe ricevuto per la propria condizione una diagnosi di UA, venga invece da domani (ricorrendo a marcatori che si alterano con una soglia più bassa) etichettato come NSTEMI. È andata così ogni volta, a partire dall’introduzione dell’utilizzo del CK-MB, sino a tutte le diverse forme di troponine cardiache T ed I, ultime delle quali quelle ad alta sensibilità (ad oggi non completamente omogenee nell’utilizzo e nell’interpretazione, né standardizzate nelle procedure analitiche): la cinetica di alterazione dei biomarcatori di danno cardiaco sempre più sensibili porta ad una riclassificazione delle diagnosi che assottiglia sempre più la probabilità di porre quella di UA rispetto a quella di NSTEMI.
Questo fatto, che a prima vista parrebbe un mero evento di nomenclatura o terminologia è invece tutt’altro che marginale, se consideriamo quanto il percorso diagnostico e terapeutico delle due condizioni sia differente nei tempi e nelle modalità (sia per il trattamento farmacologico più o meno variegato ed aggressivo, sia per l’invasività delle procedure consigliate o raccomandate, sia nelle strategie di prevenzione secondaria), soprattutto in urgenza, nel definire le strategie più appropriate per valutare e trattare in modo mirato i singoli pazienti per i quali è possibile una stratificazione del rischio sempre più fine ed individualizzata, migliorandone in ultima analisi l’esito.
È ovvio che l’aumentare il livello di sensibilità del test di laboratorio significa quasi inevitabilmente ridurre la specificità della diagnosi di MI, incrementando sia le diverse possibili interpretazioni differenziali che il rischio di falsi positivi, motivo per il quale il giudizio clinico integrato del medico, al di là dei soli marcatori, continua ancora a fare altrettanto inevitabilmente la differenza.
Lo spazio che resta per l’UA è quindi sempre più marginale (dipendendo così essenzialmente dalle caratteristiche del nuovo biomarcatore analizzato), e più esposto ad essere definito in modo ambiguo e disomogeneo. Si apre allora uno scenario che, nell’ambito della cardiopatia ischemica, ci vedrà parlare di due soli principali gruppi: da una parte l’angina pectoris, dall’altra l’MI, entrambi comprendenti forme ampiamente variabili (ma definibili) per caratteristiche e severità.

 

Multicenter Implementation of a Severe Sepsis and Septic Shock Treatment Bundle. Russell R. Miller III et al., for the Intermountain Healthcare
Intensive Medicine Clinical Program. American Journal of Respiratory Critical Care Medicine 2013; 188: 77

La sepsi severa (SeS) e lo shock settico (SSh) rappresentano una condizione di estrema gravità, e soprattutto un’area a tutt’oggi passibile di ampi miglioramenti, sia nella fase di inquadramento che di trattamento, nonostante la diffusione a partire dal 2004 del “pacchetto” di interventi di valutazione e trattamento della Surviving Sepsis Campaign che ha riacceso l’interesse verso l’argomento e ridefinito le priorità dell’approccio alla sepsi fin dal Dipartimento di Emergenza (ED).
Questo studio multicentrico statunitense si è sviluppato nell’arco di 7 anni (2004-2010 compresi), con una fase di valutazione e sviluppo della durata di un anno, uno stadio di intervento e realizzazione di 3 anni, ed una fase di applicazione e monitoraggio di altri 3 anni, ed ha incluso ed analizzato 4329 soggetti di età 18 anni ricoverati per SeS o SSh da ED in Unità di Terapia Intensiva (ICU). (NB: tra i criteri per la definizione di sepsi severa il cut off dei lattati era stabilito a 2 mmol/l, 4 per lo shock settico). Sono stati presi in considerazione 11 elementi del pacchetto di interventi di cui 7 nella fase di risuscitazione (di cui 3 da eseguire e completare precocemente nell’arco di 3 ore, e gli altri 4 entro le prime 6 ore) e 4 in quella di mantenimento.
La mortalità complessiva è risultata del 12,1% (SeS 8.9%, SSh 17%); si è assistito ad un calo di mortalità del 59%  dalla prima fase all’ultima (21.8% e 8.7%, rispettivamente). Parallelamente l’adesione completa al pacchetto di interventi è cresciuta del 68.5%, dal 4.9% della fase iniziale sino al 73.4% del 2010. La mortalità è calata del 55.3% (dal 21.7% al 9.7%) anche nei pazienti per i quali si è avuta un’adesione solo parziale ed incompleta. Età, grado di severità della sepsi ed il maggior numero degli interventi del pacchetto elementi del bundle (in particolare adesione ai criteri per la somministrazione di inotropi, globuli rossi, steroidi e l’utilizzo di strategie di ventilazione protettiva sul polmone) sono i soli fattori risultati significativamente correlati alla mortalità. L’adesione alle indicazioni
relative alla misurazione dei lattati, alla raccolta di campioni per emocolture ed ai tempi di somministrazione della terapia antibiotica nella prima fase ha decisamente condizionato le scelte relative agli interventi successivi del pacchetto: data infatti la diretta connessione con l’ipotensione refrattaria (utilizzo di glucocorticoidi), l’ipoperfusione (inotropi e globuli rossi) e la disfunzione d’organo (ventilazione protettiva sul polmone), si può interpretare questo risultato ipotizzando che gli interventi correttamente compiuti nella fase precoce (prime 3 ore) possano condizionare direttamente l’evoluzione (migliorativa o “meno peggiorativa”) nelle prime 24 ore, limitando il numero e l’entità degli interventi necessari nella fase successiva.
Da notare come venga chiaramente rimarcato il fatto che nei casi di sepsi, SeS e SSh la collaborazione “significativa” tra ED ed ICU, entrambi responsabili dell’esito finale, sia un fattore di rilevanza imprescindibile.

In Patients Presenting With Transient Ischemic Attack, Does the ABCD2 Clinical Prediction Rule Provide Adequate Risk Stratification for Clinical
Decisionmaking in the Emergency Department? Jarone Lee and Kaushal Shah. Annals of Emergency Medicine 2013; 62: 14

La Medicina d’Urgenza è una specializzazione assolutamente complessa perché anche inevitabilmente trasversale, pertanto unica nel suo genere ed esposta a continui aggiornamenti e contaminazioni. Molto spesso, in mancanza di altro che sia “meglio”, attingiamo da altri campi di diverse specialità mediche assorbendone ed utilizzandone, dopo averli calati nella nostra specifica realtà, sistemi a punteggio che nascono e sono sviluppati pensando ad un utilizzo in un contesto clinico ben differente da quello dell’urgenza.
Questa brevissima review affronta un punto di certo interesse: il ruolo e l’applicabilità dello score ABCD2 nel predire il rischio di ictus ischemico nei 2, 7 e 90 giorni successivi ad un attacco ischemico transitorio (TIA). Da un’analisi della letteratura (33 studi considerati degni di interesse tanto da essere inclusi nello studio) emerge come il rischio di stroke a 90 giorni da un TIA sia del 10%, con la metà degli eventi che si verifica nei primi 2 giorni.
Da una parte, allora, viene confermata la necessità di istituire un rapido ed “aggressivo” percorso diagnostico terapeutico precoce (si raccomanda che venga compiuto nelle 24 ore) nei soggetti affetti da TIA, per intraprendere misure di profilassi secondaria identificando e trattando particolari condizioni di rischio vascolare ed embolico. 
D’altra parte, si evidenzia come lo score ABCD2 non mostri “potere” ed accuratezza sufficienti, in termini di applicabilità e capacità di apportare un reale contributo decisionale nel setting dell’urgenza.

Patient Dying in Hospital: an Honoured Guest in an Honoured Place? Sinead Donnelly. Quarterly Journal of Medicine 2013; 106: 697
Il QJM, rivista di ambito internistico usualmente piuttosto creativa, elegante e stimolante (in pratica, per certi aspetti, “sorella minore” del BMJ), sta pubblicando da alcuni mesi una serie di revisioni e punti della situazione relativi alla Medicina Palliativa. In questo anno 2013, già nei numeri di settembre, luglio e marzo della nostra rivista mi è capitato di scegliere di riassumere, recensire e commentare articoli relativi al contatto tra Medicina della Palliazione e Medicina d’Urgenza: credo infatti, e non lo credo solo io, che sia necessaria una nuova e particolare attenzione verso questo delicato e decisivo argomento, proprio perché è nuovo e particolare lo scenario che si sta configurando. Inoltre, la produzione scientifica in questo specifico ambito sta crescendo vertiginosamente, sia in quantità che qualità.

Questo articolo, in particolare, richiamando studi che hanno cercato di analizzare e comprendere le cose anche e soprattutto dal punto di vista dell’“utenza”, affronta un punto innegabile: la maggior parte delle persone oggigiorno muore in ospedale; e parlando della maggior parte si intende “letteralmente” più del 50%.
Negli ultimi 25 anni si è assistito ad un continuo aumento (e non vi è alcun elemento che faccia presumere che a breve vi debba essere un’inversione di tendenza) di decessi che avvengono al di fuori di casa propria, ed all’interno di strutture sanitarie; la prospettiva è che negli anni a venire solo il 10% degli individui morirà a casa. Questo dato è ubiquitario, confermato sia in America che in Europa, e non è semplicemente imputabile alla crescente disponibilità di strutture tipo Hospice dedicate a malati che si trovino nelle fasi di fine vita.
In quest’ambito è esperienza sempre più frequente di ogni Medico d’Urgenza il doversi interfacciare (in un contesto come il nostro che è “strutturalmente inadatto”) con le richieste e le necessità (sino a quel momento evidentemente “inevase”, o comunque non “soddisfatte” sul piano gestionale o clinico, con gli strumenti che il mondo della Sanità ha sino ad allora offerto loro e messo loro a disposizione) dei pazienti e dei loro famigliari, così come, tutt’altro che eccezionalmente, dei medici che li hanno in cura. 
Ma tutto quanto detto non significa automaticamente che morire in ospedale rappresenti sempre una risposta valida e soddisfacente, proprio perché anche i grandi ospedali spesso non sono in grado di fornire risposte adeguate, non tanto cliniche quanto “culturali” ed “umane” nella cura dei morituri. In realtà, se ci pensiamo bene, parallelamente, negli ultimi due decenni, anche l’attenzione al tema della morte in ospedale, e l’attenzione e la cura al paziente nelle fasi di fine vita, sono evidentemente cresciute, anche in termini di impiego di tempo e risorse ed in qualità dell’assistenza e delle competenze, sia da parte del personale medico che infermieristico, così come anche degli altri operatori socio-sanitari. Ma la strada da percorrere è ancora decisamente lunga: volenti o nolenti
non possiamo dimenticare che questi aspetti sono parte integrante delle cure e quindi del nostro lavoro, anche nel mondo dell’urgenza (nel quale quasi sempre le priorità non si possono scegliere e si sovrappongono e scavalcano in un continuo equilibrio instabile), ed in modo assolutamente decisivo nel momento in assoluto “più decisivo” della vita. Gli aspetti che più sembrano passibili di intervento e di miglioramento, oltre che gli aspetti logistici e di “tempo”, sono quelli di approccio e comportamento: in pratica un “modo di essere” che coniuga competenza clinica e capacità comunicativa e relazionale, quest’ultima intesa come attenzione e considerazione e disponibilità e rispetto verso le necessità sia del paziente che della famiglia.
È pleonastico sottolineare ancora una volta come l’organizzazione sanitaria (che sta sotto e dietro) debba supportare i professionisti della Sanità per permettere loro di “lavorare bene” come già sanno fare (e come già sanno essere) anche negli ambiti che oggi rappresentano ancora un “nervo scoperto dolente”, cioè un problema insoluto, una richiesta inevasa che oggigiorno appare tutt’altro che “extra-ordinaria”. Bisogna avere a disposizione strumenti concreti, formativi e “strategici”, per aumentare la qualità dell’assistenza sul piano della comunicazione, dell’integrazione delle cure e della possibilità di stabilire appropriati percorsi condivisi che possano essere adeguatamente discussi, predisposti e garantiti con il dovuto anticipo.
Una frase di questo articolo, in particolare, a mio personale avviso, merita di essere citata: “…dying is not only what the patient experiences but also what the family remembers”. (P.S.: forse, per “eccesso di zelo” o semplicemente “conflitto di interessi”, menzionerei anche l’esperienza ed il ricordo dei medici e degli infermieri e degli operatori coinvolti…).

 

Humanisation in the Emergency Department of an Italian Hospital: New Features and Patient Satisfaction. Emanuela Lovato et al. Emergency Medicine Journal 2013; 30: 487
Interessantissimo lavoro Italiano, svolto a Torino, che dimostra ancora una volta come, in fondo, tutti i medici d’urgenza siano “nella stessa barca” e condividano condizioni e rischi e frustrazioni e desideri e speranze ed obiettivi comuni, sia per le problematiche da affrontare che per la ricerca delle soluzioni. Schiacciati tra sforzi e richieste che pretendono la riduzione delle spese da una parte, ed un continuo aumento di prestazioni e procedure dall’altra, il rischio di depersonalizzazione e “disumanizzazione” è massimo proprio all’interno del Dipartimento di Emergenza (ED). La centralità della persona nella sua “umanità” è da sempre il fulcro della qualità del servizio che i professionisti della Sanità devono garantire, e parallelamente del livello di soddisfazione percepito da parte
dell’utenza.

Per quanto estremamente difficile da quantificare, gli Autori hanno cercato di valutare le differenze “prima e dopo” rispetto ad un intervento di “umanizzazione” (cambiamenti strutturali ed organizzativi) il cui obiettivo era quello di rendere migliore l’esperienza dei pazienti che accedono al ED. L’intervento ha riguardato diversi aspetti: introduzione al triage di un “codice argento” (pazienti con codice verde, di età >70 anni), revisione dei criteri e dei percorsi di triage pediatrico, nuova area di triage con personale infermieristico dedicato (welcoming manager), modifiche relative agli spazi dell’attesa (design, sale e servizi), creazione di un’area di attesa dedicata per i casi pediatrici, presenza di volontari specificamente formati all’interno degli ambienti del ED.
Sono stati reclutati tutti i pazienti (esclusi i “codici rossi”) giunti al ED nelle giornate di sabato e mercoledì, nei 3 mesi antecedenti e nei 3 successivi all’intervento, e sono stati ricontattati telefonicamente a 2 settimane dall’accesso in ED. È stato necessario escludere il 52% dei casi perché non è stato possibile contattarli. Avendo accettato di partecipare il 53% di coloro che sono stati contattati, il campione finale incluso nell’analisi è consistito in 297 soggetti.
Dopo l’intervento è risultato migliorato il livello di soddisfazione percepito in relazione a: livello di comfort delle sale d’attesa, tempo di attesa prima della visita, chiarezza delle informazioni ricevute, riservatezza durante le operazioni di triage e opinione complessiva; è risultato invece peggiorato il livello di soddisfazione rispetto a: la prima impressione del ED, l’adeguatezza della segnaletica cartellonistica, la presenza e la disponibilità di personale.
Potremmo discutere dei risultati per ore, nel bene e nel male. Sta di fatto che tutti gli aspetti affrontati dagli Autori sono tra quelli che ogni operatore dell’urgenza avverte come insufficienti ed insoddisfacenti nella propria quotidianità, tanto quanto decisivi per la qualità del servizio e delle cure: ogni tentativo di migliorare il nostro lavoro, a fronte dei limiti di mezzi e personale che ci sono imposti e del tempo insufficiente per quantità e qualità che possa essere dedicato ad una comunicazione realmente adeguata, “non ha prezzo”…


Riassunto, recensione e commento a cura di Rodolfo Ferrari. Medicina d’Urgenza e Pronto Soccorso. Policlinico Sant’Orsola – Malpighi. Azienda Ospedaliero Universitaria di Bologna.