Palliative use of non-invasive ventilation in end-of-life patients with solid tumours: a randomised feasibility trial. Stefano Nava, et al. The Lancet - Oncology 2013;14:219-27

Metto subito le mani avanti dichiarando un mio potenziale conflitto di interessi riguardo alle considerazioni che potrei fare su questo articolo, visto che alcuni degli Autori sono miei cari amici. Vi invito quindi ad andare al di là delle mie parole, e ad attingere direttamente dalla fonte leggendovi interamente il lavoro. Nel frattempo cercherò di limitarmi a scrivere ciò che più mi ha colpito.
È uno studio unico nel suo genere e “coraggioso” per l’argomento affrontato, ed inevitabilmente estremamente rigoroso nelle basi e nella metodologia: riguarda aspetti della palliazione in urgenza (in particolare qui in riferimento alla dispnea acuta) nei pazienti con prognosi infausta che si trovino nelle fasi di fine vita (qui affetti da neoplasie solide). Questo “sottogruppo” di individui di norma è escluso dagli studi clinici, e quindi dal mondo della letteratura scientifica e delle raccomandazioni basate sull’evidenza, e talora parrebbe esistere solo nel microcosmo di chi lavora nel Dipartimento di Emergenza (ED)…



Sappiamo che gli oppiacei sono efficaci sui sintomi quando la compromissione respiratoria non sia tale da generare acutamente un franco distress, ma poco si sa di come si debba trattare la dispnea refrattaria, quando un obiettivo primario è rappresentato dal tutelare la capacità cognitiva dei pazienti e la loro possibilità di comunicare ed interagire con i famigliari. L’utilizzo dell’ossigeno (O2) come misura palliativa per attenuare la dispnea è a tutt’oggi controverso.
In tal senso gli Autori hanno valutato l’efficacia e la tollerabilità delle tecniche di ventilazione non invasiva (NIV – applicata come sola misura palliativa) rispetto all’O2 convenzionale. Da Terapie Intensive Respiratorie ed Aree Critiche situate all’interno di un ED in Italia, Spagna e Taiwan (centri estremamente esperti e dotati di strumentazione tecnologicamente avanzata) sono stati reclutati nell’arco di quasi 38 mesi 200 soggetti con rapporto PaO2/FIO2 < 250 e livello di vigilanza conservato (Kelly < 4), in associazione a segni clinici di distress respiratorio (obiettivi in relazione al pattern ventilatorio, o dispnea con scala di Borg ≥ 4, o frequenza respiratoria > 30 atti al minuto). In particolare sono stati esclusi i casi aventi causa dell’insufficienza respiratoria evidentemente reversibile (edema polmonare acuto o esacerbazione acuta di broncopneumopatia cronica ostruttiva) e nota per la ottima risposta alla NIV di per sé, ed altri soggetti in particolare in relazione a determinate condizioni di utilizzo degli oppiacei (uso nelle ultime 2 settimane, dipendenza ed abuso, reazioni avverse e controindicazioni). I pazienti quindi sono stati randomizzati tra NIV ed O2 stratificandoli poi secondo la presenza di ipercapnia (definita per PaCO2 > 45 mmHg) o meno.
Numerosissimi sono i risultati e le differenze degni di interesse e meritevoli di menzione e discussione. In particolare eccone alcuni:

  • 11 dei 99 soggetti nel gruppo “NIV” hanno interrotto precocemente il trattamento (per claustrofobia, senso di soffocamento, senso di morte imminente, non aver compreso il protocollo, richiesta di un famigliare) versus nessun caso tra quelli del gruppo “O2”; la NIV è stata comunque complessivamente ben tollerata;
  • nel gruppo NIV la riduzione nella dispnea secondo la scala di Borg è stata più rapida e marcata che nel gruppo O2; lo stesso beneficio si conferma nel sottogruppo dei soggetti ipercapnici;
  • i pazienti trattati con NIV hanno utilizzato (necessitato di) meno morfina nelle prime 24 ore;
  • tra i due gruppi non sono emerse differenze nella mortalità intraospedaliera; per quanto riguarda i soggetti ipercapnici, però, quelli con NIV hanno presentato una sopravvivenza maggiore (dato confermato anche a 3 e 6 mesi);
  • i casi ipercapnici trattati con NIV hanno mostrato, rispetto a quelli in O2, miglioramenti più marcati negli scambi gassosi (PaO2, PaCO2 e pH) e nella frequenza respiratoria;
  • la mortalità per causa respiratoria, quale l’ipossia refrattaria, è ugualmente distribuita nei due gruppi (18% NIV e 21% O2)
  • nel sottogruppo dei 73 soggetti sopravvissuti sino alla dimissione, il miglioramento nei sintomi di distress respiratorio è stato più evidente nel gruppo NIV.

Si può allora concludere che la NIV sia complessivamente ben tollerata e ben accetta nei pazienti con insufficienza respiratoria acuta e distress respiratorio nelle fasi di fine vita, e si sia dimostrata in grado di ridurre più efficacemente la dispnea, e contemporaneamente anche la quantità di morfina necessaria, rispetto al trattamento con O2 convenzionale.

Come medici d’urgenza, abituati a prendere decisioni drastiche in emergenza, senza quantità né qualità di tempo a disposizione per raccogliere informazioni, sappiamo bene quale drammaticità rappresenti la fame d’aria, soprattutto per chi si trova nelle condizioni psico-organiche del non poter ambire ad una guarigione, e come la capacità predittivo-prognostica di ogni medico in queste fasi di fine vita sia lacunosa. A mio parere il valore di questo studio sta proprio in questo contributo: credo che poter considerare altre “frecce al nostro arco” per lenire la dispnea e simultaneamente ridurre l’alterazione del sensorio dovuta ad ipossia ed ipercapnia, attraverso strumenti che contestualmente si dimostrino in grado di limitare l’uso degli oppiacei (che non sappiamo quanto saranno poi necessari più in là per i nostri pazienti, né per quanto tempo, né a quali dosi o posologia, né a quale prezzo e con quali effetti avversi) possa apportare un aiuto davvero prezioso.

Does the Absence of Cardiac Activity oh Ultrasonography Predict Failed Resuscitation in Cardiac Arrest? Brian Cohn. Annals of Emergency Medicine 2013;62:180-1


Il “take home message” di questa brevissima review, cioè la risposta alla domanda che ne rappresenta il titolo è: no, l’assenza di attività cardiaca alla valutazione ecografica al letto del paziente non implica universalmente il fallimento dei tentativi di rianimazione cardio-polmonare (CPR) in corso di arresto cardiaco (CA). L’argomento è di estrema importanza, dato che sempre più frequentemente numerosi specialisti utilizzano questo dato nel decidere se e quando terminare i tentativi di CPR. È stata analizzata tutta la letteratura specifica, e sono stati selezionati 8 articoli che hanno incluso 378 casi di CA con assenza di attività contrattile ecografica; la sensibilità e specificità dell’ecografia nel predire il ritorno alla circolazione spontanea (ROSC) sono risultate rispettivamente del 92% e dell’80%, con valore predittivo positivo di 4.3 e negativo di 0.2.
Nove casi (2.4%) hanno ottenuto il ROSC nonostante la mancata attività cardiaca ecografica. Il dato è di non semplice né univoca interpretazione, poiché sarebbero indubbiamente più dirimenti la sopravvivenza alla dimissione, o a 90 giorni, o altrimenti l’esito neurologico. Sta di fatto che l’evidenza attuale non supporta la raccomandazione di utilizzare l’ecografia di per sé per predire l’esito nei casi di CA.

Riassunto, recensione e commento a cura di Rodolfo Ferrari. Medicina d’Urgenza e Pronto Soccorso. Policlinico Sant’Orsola – Malpighi. Azienda Ospedaliero Universitaria di Bologna.