Clinical Outcomes Associated With Procalcitonin Algorithms to Guide Antibiotic Therapy in Respiratory Tract Infections. Is Hospital Admission for Heart Failure Really Necessary? Revised criteria for suspicion of non-benign positional vertigo

Riassunto, recensione e commento a cura di Rodolfo Ferrari. 

 

Clinical Outcomes Associated With Procalcitonin Algorithms to Guide Antibiotic Therapy in Respiratory Tract Infections. Philipp Schuetz, et al. JAMA 2013;309:717

 

Nelle infezioni del tratto respiratorio (RTI) un sovrautilizzo del trattamento antibiotico espone a diversi rischi, primi fra tutti quello di sviluppare resistenze agli antibiotici stessi ed infezione da Clostridium difficile. L’impiego della procalcitonina (Pct) è raccomandato all’interno di diversi algoritmi decisionali (è presente ad
esempio in documenti di riferimento e linee guida che fanno capo anche alla European Respiratory Society ed alla Surviving Sepsis Campaign) per quanto riguarda l’intraprendere ed il cessare la prescrizione di antibiotici, con evidenze documentate anche nel contesto del Dipartimento di Emergenza (ED) ed in particolare nei pazienti affetti da polmonite acquisita in comunità (CAP).


I vantaggi dimostrati negli studi sino ad ora pubblicati in letteratura, relativi appunto all’utilizzo della Pct sul piano decisionale, riguardano la riduzione sia del tasso di fallimento che di esposizione agli antibiotici (riducendone la prescrizione soprattutto nei casi di riacutizzazione di broncopneumopatia cronica ostruttiva e di bronchite, sia nel setting delle cure primarie che per i casi di infezioni meno severe), che di durata del trattamento (sia in ED, che in Unità di Terapia Intensiva, che per le CAP); il tutto senza che sia stato riscontrato un conseguente aumento della mortalità per RTI.

Va sottolineato come, negli studi qui citati e commentati, non siano inclusi pazienti immunocompromessi e pediatrici, ed i casi di infezioni non respiratorie; va ricordato inoltre come non sia ancora stato chiaramente dimostrato l’impatto di costo-efficacia degli algoritmi basati sull’utilizzo della Pct nei casi di RTI in contesti differenti per caratteristiche e logistica (in particolare in ambienti diversi per intensità di cura e per localizzazione geografica).


Is Hospital Admission for Heart Failure Really Necessary? The Role of the Emergency Department and Observation Unit in Preventing
Hospitalization and Rehospitalization. Sean P Collins, et al. J Am Coll Cardiol 2013;61:121

 

Ecco un punto di vista, da Autori Statunitensi, sulla ottimizzazione auspicabile della gestione dei casi acuti di insufficienza cardiaca (HF). Non vi è chiarezza né uniformità di comportamento riguardo alle indicazioni al ricovero ospedaliero in urgenza nei casi di HF. Se in alcuni (ma sostanzialmente ben pochi) casi vi sono elementi che rendono l’ospedalizzazione indiscutibile (edema polmonare, ischemia miocardica, shock cardiogeno, indicazione a test o a procedure invasive
o a monitoraggio intensivo, necessità di agenti inotropi endovena o di supporto circolatorio meccanico o di monitoraggio emodinamico), molti sono invece i casi in cui l’accesso al Dipartimento di Emergenza (ED) è indotto dal peggioramento della congestione in un quadro di HF cronica, meritevole del solo trattamento decongestionante e sintomatico, che però spesso esita in ricovero nel timore di eventi avversi post-dimissione: in questi casi, nel tempo della degenza, anche a fronte di eventuali rilevanti e complesse comorbosità, spesso il solo trattamento effettivamente intrapreso è quello diuretico endovenoso.

Molti e rilevanti sono gli aspetti controversi nella gestione in acuto dei pazienti con HF: la mancanza di trattamenti oggettivamente efficaci nei casi con funzione sistolica integra, l’assenza di provvedimenti terapeutici evidentemente efficaci specificamente attuabili nel ED, l’elevato tasso di eventi avversi che occorrono post-dimissione (nel 33% dei casi nuova ospedalizzazione o decesso a 60-90 giorni), la mancata evidenza che l’ospedalizzazione sia di per sé in grado di ridurre il tasso di eventi avversi a breve e lungo termine e conseguentemente modificare la storia di malattia.
Ad oggi, solo il 10-20% dei casi di HF è dimesso al domicilio direttamente dal ED; questi pazienti presentano un aumentato tasso di eventi avversi rispetto a quello (20-30%) registrato nei dimessi al domicilio a seguito di un ricovero ospedaliero. Molti dei casi di HF dimessi da ED, poi, vi ritornano presto per essere quindi ricoverati, ma ciò che appare più interessante è che nel 40% dei casi l’indicazione al ricovero viene a quel punto posta per motivi “non cardiologici”. Un’appropriata stratificazione del rischio per i pazienti con HF nel ED è quindi necessaria, per poter indirizzare i casi a basso rischio verso percorsi alternativi all’ospedalizzazione che ne garantiscano però un analogo esito clinico. Gli Autori propongono allora una valutazione standardizzata che valorizzi: cause precipitanti importanti quali ischemia, aritmie non controllate ed infezioni; condizioni emodinamiche alla presentazione quali ipossia, ipotensione e shock cardiogeno; altre condizioni rilevanti quali insufficienza renale, iponatriemia, broncopneumopatia cronica e diabete. Allo stesso modo è necessario, per un completo inquadramento dei casi, intraprendere il trattamento con diuretici endovena e nitroglicerina sublinguale, per poi poter rivalutare il quadro complessivamente dopo il trattamento stesso e raffinare allora la stratificazione del rischio.
È possibile identificare un primo gruppo di casi con HF a basso rischio, che rispondono rapidamente alla terapia tornando alle condizioni preesistenti senza manifestare alcuna condizione ad alto rischio; questi pazienti potranno allora essere dimessi al domicilio direttamente o dopo un breve periodo di osservazione nel ED. Vi sarà poi un secondo sottogruppo intermedio di casi che risponderanno parzialmente alla terapia nel ED, in cui i sintomi si risolveranno in parte, senza che si sviluppino condizioni a rischio elevato; anche per questi pazienti potranno essere presi in considerazione percorsi alternativi al canonico ricovero ospedaliero. Un terzo ed ultimo gruppo risulterà ad alto rischio e svilupperà un peggioramento clinico nonostante la terapia intrapresa; questi pazienti dovranno ovviamente essere ospedalizzati per approfondire l’iter sia terapeutico che diagnostico.

Gli Autori a questo punto propongono, per i casi di HF che non siano risultati ad alto rischio, un percorso breve che garantisca un’appropriata stratificazione del rischio, volta ad identificare il livello di intensità di cure più adeguato, e fornisca nel frattempo allo stesso modo gli stessi cardini dell’ospedalizzazione: ottimizzazione dello stato volemico, risoluzione dei sintomi, ripristino delle condizioni preesistenti per consentire un sicuro rientro al domicilio. Per questo breve periodo di osservazione e trattamento dei pazienti con HF, il ED è identificato come contesto ideale ed il medico d’urgenza (EP) come fulcro del percorso: è già documentato come una quota rilevante di casi migliori la condizione di dispnea dopo il trattamento “standard” somministrato in ED, e molti giungano a
risoluzione completa nell’arco di 24 ore; il monitoraggio dei parametri vitali (ma anche della risposta diuretica, e del peso corporeo) è usualmente garantito nelle aree di osservazione breve all’interno del ED, così come la possibilità di eseguire indagini laboratoristiche e strumentali e seguirne l’evoluzione longitudinale; anche la fase di educazione e di follow up usualmente possono seguire percorsi ben definiti di continuità delle cure post-dimissione.
È ovvio che un percorso di questo tipo imponga un “circolo virtuoso” di collaborazione a livello locale tra EP, cardiologo, internista, e medico di medicina generale, ed a livello più ampio richieda protocolli ampiamente condivisi, nonché un’attenta analisi dei risultati, soprattutto in termini di rapporto rischio / beneficio e costo / efficacia.


Interpreting arterial blood gas results. Nicholas J Cowley, et al. BMJ 2013;346:f16


Se i cultori più fini della materia potranno anche indignarsi, i “principianti” possono invece trarre certamente qualche stimolo da questa sintesi attraverso la quale gli Autori propongono un approccio “sistematico”, una sorta di “scaletta” ed una chiave di lettura dei risultati di una gasanalisi arteriosa.
A partire da un caso clinico, si passa dall’interpretazione della condizione di ossigenazione a quella del pH, poi dei bicarbonati standard e dell’eccesso di basi (NB: gli Autori sono Anestesisti – Intensivisti), poi della pressione di anidride carbonica, infine degli altri dati riportati sul referto dell’esame gasanalitico.
Premetto che metto subito le mani avanti: da una rivista prestigiosa come il BMJ ci si poteva aspettare anche di meglio, ma in 7 “paginette” (tabelle comprese) credo che lo sforzo sia encomiabile ed il risultato indiscutibilmente interessante. Si tratta necessariamente (e lo era evidentemente anche nell’intento degli Autori) di una estrema semplificazione mirata ad incrementare la “diffusione” della cultura della gasanalisi arteriosa a partire da un “punto zero”; il rischio principale che vi è connaturato è ovviamente quello di scadere in alcune parti in una sorta di banalizzazione (credo risulti particolarmente “fragile” e quindi esposta anche a pericolosi potenziali fraintendimenti la parte dedicata ai compensi dei disturbi acido-base), ma è ovvio che si tratta di un punto di partenza per stimolare
i lettori ad un successivo approfondimento. Tra i punti di particolare interesse, gli Autori sottolineano alcuni aspetti cruciali e spesso trascurati quali, la necessità
di rivalutare evolutivamente il dato, e le principali cause di errore nell’analisi dei campioni arteriosi. Come annotazione finale, per chi leggendo l’articolo avesse notato un range “inusuale” di valori numerici per quanto riguarda il rapporto P/F (PaO2/FIO2), va ricordato come le pressioni parziali dei gas arteriosi siano espresse avendo come unità di misura i kPa e non i mmHg.

The ability of the National Early Warning Score (NEWS) to discriminate patients at risk of early cardiac arrest, unanticipated intensive care unit admission, and death. Gary B Smith, et al. Resuscitation 2013;84:465


L’utilizzo e la standardizzazione dei sistemi a punteggio di allarme precoce (Early Warning Scoring Systems) è raccomandato come supporto obiettivo, nella cosiddetta “catena della prevenzione”, per identificare e trattare con tempismo ed efficacemente i pazienti in rapido deterioramento clinico. Viene valorizzata, con un sistema “pesato” a punti, l’alterazione più o meno marcata dei segni e parametri vitali (inseriti in un apposito database) al fine di evidenziare l’indicazione ad attivare precocemente un sistema organizzativo che porti alla risposta in emergenza urgenza di un gruppo di esperti specificamente formato (Medical Emergency Team, Rapid Response Team) per la gestione e la presa in carico dei pazienti critici o ad elevato rischio evolutivo, così da migliorarne l’esito.
Gli Autori di questo lavoro monocentrico hanno sviluppato e testato nel tempo diversi scores a punteggio fino all’attuale, il National Early Warning Score (NEWS) (che include frequenza respiratoria, saturazione periferica in ossigeno, necessità di ossigeno supplementare, temperatura corporea, pressione arteriosa sistolica, frequenza cardiaca, stato di vigilanza e coscienza secondo il sistema AVPU), che in questo articolo viene valutato per la capacità predittiva nelle 24 ore successive riguardo ad esiti quali la mortalità intraospedaliera, l’arresto cardiaco e la necessità di ricovero in Unità di Terapia Intensiva (ICU).


In poco meno di 26 mesi sono state analizzate 198755 raccolte di parametri vitali di 35585 pazienti: nell’arco delle successive 24 ore in 199 casi si è verificato arresto cardiaco, in 1161 ricovero imprevisto in ICU, in 1789 decesso. La capacità predittiva (misurata con l’area sotto la curva ROC – receiver-operating characteristic) da parte del NEWS è risultata superiore rispetto ad altri 33 scores posti a confronto, sia per la combinazione dei 3 esiti che per ogni singolo esito, eccetto che per l’arresto cardiaco.
Da notare alcuni aspetti di rilievo sui criteri di inclusione ed esclusione: l’analisi è relativa a pazienti acuti in ambito “internistico”, con l’eccezione dei pazienti di età < 16 anni, dei ricoveri avvenuti direttamente in ICU, e dei casi chirurgici; sono invece stati compresi nell’analisi i casi DNAR (Do Not Attempt Resuscitation).


Haemorragic Complications in Emergency Department Patients Who Are Receiving Dabigatran Compared With Warfarin. Russell Berger, et al. Ann Emerg Med 2013;61:475


Cresce l’interesse verso i nuovi anticoagulanti ed allo stesso tempo aumentano i dati e le osservazioni disponibili relativi al loro utilizzo nella quotidiana pratica clinica. Questo studio riguarda il dabigatran (D), inibitore per competizione diretta della trombina, indicato come alternativa al warfarin (W) nella prevenzione dello stroke cardioembolico nei pazienti affetti da fibrillazione atriale: il D rispetto al W presenta maggiore semplicità di dosaggio, minore necessità di monitoraggio laboratoristico e minori interazioni con altri farmaci e cibo non essendo sottoposto al metabolismo epatico del citocromo P 450. Il D ha una dose fissa somministrata 2 volte al dì, un’emivita plasmatica di 12-17 ore ed un’eliminazione primariamente renale: non ne esiste un antagonista diretto che ne possa annullare l’effetto anticoagulante, e poco si sa relativamente alle complicanze emorragiche per quanto ne riguarda i fattori di rischio, le caratteristiche cliniche e la gestione terapeutica, soprattutto in urgenza e nel Dipartimento di Emergenza (ED).


Nel periodo di 7 mesi dello studio sono stati identificati 15 pazienti in trattamento con D giunti in ED per un evento emorragico; i casi sono stati confrontati con un campione di 25 pazienti in trattamento con W, anch’essi giunti in ED a causa di un sanguinamento.
La sede più frequente di sanguinamento è risultata essere quella gastrointestinale (80% dei pazienti con D, 48% dei casi in W). I pazienti in trattamento con D hanno presentato, rispetto a quelli con W: minor tasso di emorragia intracranica (nessun caso; 8 invece nei 25 pazienti in trattamento con W, di cui in 5 casi traumatica ed in 3 spontanea), simile mortalità (12% versus 13%), degenza più breve (con differenza particolarmente marcata in caso di emorragia digestiva), trasfusione di un minor numero di unità di plasma fresco congelato e di eritrociti concentrati, minor tasso di complicanze a rischio vita (27% versus 56%), simile tasso di danno renale acuto (53% versus 42%), nessuna infusione di complessi protrombinici concentrati, né fattore VII ricombinante attivato, né emodialisi. Nei
soggetti in trattamento con D, l’età avanzata e l’alterazione della funzionalità renale (cronica ed acuta, incidendo sul profilo farmacocinetico) rappresentano i principali fattori di rischio emorragico.

Interessante è la discussione relativa alla ridotta durata della degenza nei pazienti con emorragia in corso di terapia con D; varie sono le ipotesi ed interpretazioni possibili menzionate dagli Autori: la breve durata d’azione e la presumibile minore durata anche del sanguinamento; il fatto che, non avendo a disposizione test coagulativi specifici cui fare riferimento, l’opportunità di dimettere al domicilio si valuti essenzialmente sulla sola risposta clinica; o anche che, non avendo ancora sufficiente esperienza e confidenza con l’utilizzo e gli eventi avversi del D, si tenda ad ospedalizzare anche i casi meno severi.

Revised criteria for suspicion of non-benign positional vertigo. A Soto-Varela, et al. QJM 2013;106:317


La diagnosi differenziale delle diverse forme di vertigine (in particolare se benigne o meno) si basa fondamentalmente sulle caratteristiche cliniche che emergono da anamnesi, esame obiettivo e risposta al trattamento (in particolare le manovre di riposizionamento). In alcuni casi selezionati, il sospetto di una genesi dal sistema nervoso centrale (per lo più sclerosi multipla, tumori cerebrali e stroke del tronco encefalico) pone indicazione all’esecuzione di indagini strumentali, tra le quali la risonanza magnetica risulta essere di particolare efficacia. Dopo una breve ed interessante analisi fisiopatologica dei caratteri delle vertigini posizionali parossistiche benigne (BPPV), gli Autori passano in rassegna e discutono criticamente i classici criteri diagnostici proposti nel 1952 da Dix ed Hallpike, relativi in particolare alle caratteristiche del nistagmo indotto dalle manovre, sottolineandone gli aspetti più ambigui in rapporto al rischio di falsi negativi.
Gli Autori (di estrazione Otorinolaringoiatrica) giungono quindi a proporre nuovi criteri per sospettare una vertigine posizionale che non sia benigna: presenza di altri sintomi e segni di anomalie neurologiche (con particolare attenzione a cefalea, diplopia, alterazione a livello dei nervi cranici e della funzione cerebellare), comparsa di nistagmo in assenza di capogiri ai test posizionali, direzione atipica del nistagmo (posizionale verticale battente verso il basso, multidirezionale ai test posizionali eseguiti in momenti diversi), scarsa risposta alle manovre, frequente ricorrenza dei sintomi (confermata dai test posizionali in almeno 3 occasioni).

 

ED intensivists and ED intensive care units. Scott D Weingart, et al. Am J Emerg Med 2013;31:617


Secondo quanto emerso dalle esperienze maturate negli Stati Uniti d’America, gli Autori analizzano come all’interno dei Dipartimenti di Emergenza (ED) si siano create negli anni settori specificamente approntati per garantire cure intensive destinate ai pazienti critici, per tutto il tempo di permanenza in ED fino a che non ne sia possibile il trasferimento, una volta resosi disponibile un posto letto in Unità di terapia Intensiva. Se fino a non molti anni fa il medico d’urgenza (EP) era lo specialista delle fasi di rianimazione/diagnosi/stabilizzazione del paziente critico e della prima decisiva ora di trattamento, adesso, dato il sovraffollamento delle strutture ospedaliere e la limitazione delle risorse disponibili, deve inevitabilmente farsi carico anche delle fasi successive (ore e giorni), mantenendo il medesimo livello di attenzione e di prestazione, in attesa che si renda disponibile una più definitiva allocazione del paziente stesso all’ambiente di cura ritenuto più adeguato.
Due sono i modelli principalmente adottati: il primo prevede la figura del EP intensivista, figura medica di esperienza e riferimento che si fa carico dei pazienti critici o collabora con la propria consulenza, partecipa ai programmi formativi ed organizzativi specifici all’interno del ED, fungendo da elemento di connessione tra il ED e gli altri ambienti di cura, intensivistici o meno, all’interno dell’ospedale.
Il secondo modello invece prevede un’area del ED destinata ai soli pazienti critici, spesso con staff medico ed infermieristico dedicato (almeno per parte della giornata), in grado di fornire un’assistenza praticamente sovrapponibile a quella dei letti di ICU di cui si attende la disponibilità; quando il EP intensivista non sia presente, l’area è gestita analogamente dagli altri EP secondo protocolli condivisi. Queste aree rappresentano oggigiorno un’imprescindibile “valvola di sfogo” per tutto l’ospedale, dato il sovraffollamento ubiquitario e la carenza dei posti letto intensivistici, ma soprattutto rappresentando un ponte diretto delle cure del paziente critico a cui altrimenti non sarebbero garantite alternative adeguate; allo stesso modo questo settore può rappresentare l’ambiente dal quale,
dopo alcune ore di trattamento con elevata intensità di cura ed evoluzione favorevole, sia possibile il trasferimento ad un’area di trattamento al di fuori della ICU.

Dopo avere affrontato i principali scenari clinici relativi ai pazienti critici, la cui valutazione e trattamento devono essere garantiti da tutti i EP, gli Autori si soffermano su altre considerazioni estremamente interessanti, tra le quali alcune meritano di essere menzionate: la necessità di un percorso formativo specifico specialistico per i EP intensivisti, il loro ruolo all’interno dell’ospedale anche al di fuori dell’ED, l’utilità e l’opportunità di protocolli condivisi, l’impatto di tali modelli organizzativi in termini di costi e risparmio, nonché di effetti sulla gestione ottimale e di esito dei pazienti.