La Sincope: opportunità e limiti della gestione in Emergenza-Urgenza

Abstract

Syncope in one of the most frequent ED complaining symptoms, nonetheless its management is still largely far from guidelines recommendations.

The high admission rates and the amount of unnecessary diagnostic tests, together with a low diagnostic accuracy, challenge physicians to critically reconsider ED syncope diagnostic pathways. Given that prognosis of syncope is related mainly to the presence of an underlying heart disease, several clinical decision rule and scores have been proposed for risk stratification in the ED, in order to select patients who really need to be hospitalized. Low risk patients without a definite diagnosis, otherwise could be discharged and have their diagnostic pathway completed as outpatients.

The Syncope Facility model has been successfully proposed as a multidisciplinary, standardized, evidence based, approach to syncope of unknown origin. Indeed this management model has proven to be of great value in improving diagnostic accuracy and reducing costs.
ED observation units are therefore the natural setting where an exhaustive diagnostic work-up and a close patient monitoring encompass the Syncope Facility competences.

Since syncope is a sporadic symptom, thus diagnostic tests are mainly provocative and therefore carry the intrinsic risk of misdiagnosis. The recognition of significant cardiac arrhythmia during spontaneous syncope is the best way of doing a diagnosis based on its mechanism, thus allowing focused therapy.

Very long ECG monitoring, i.e. with implantable loop recorder, is the best tool to “catch” and “record” a spontaneous fainting episode, but it could take several months to years before making a diagnosis.

Aspetti epidemiologici

Per sincope si intende una perdita di coscienza improvvisa, talora preceduta da prodromi più o meno tipici, caratterizzata da rapido e spontaneo ripristino dello stato di coscienza, che riconosce come causa una transitoria e globale ipoperfusione cerebrale. Dunque, qualsiasi condizione morbosa che determini un calo improvviso della gittata cardiaca, delle resistenze vascolari periferiche, ovvero delle due componenti variamente combinate, può provocare una sincope (1).
Il meccanismo eziopatologico distingue tre grandi categorie di sincope: cardiogena (aritmica, strutturale), neuromediata riflessa (vaso-vagale, situazionale, sdr. seno-carotideo, forme atipiche), da ipotensione (ipotensione ortostatica, disautonomica, ipovolemica). In linea di principio il meccanismo eziopatologico ne caratterizza anche la prognosi.
Nonostante l’elevata incidenza del fenomeno, si calcola infatti che circa una persona su tre nella propria vita vada incontro ad almeno un episodio sincopale (2), il numero di pazienti che si rivolge ai pronti soccorsi (PS) è relativamente basso. Uno studio olandese ha rilevato come appena lo 0,7% delle perdite transitorie di coscienza si rivolgerebbe al dipartimento di emergenza (DEA) (3).
Il numero di pazienti con sincope che si presentano al PS è comunque destinato ad aumentare nel prossimo futuro, in relazione alla maggiore sensibilizzazione dei cittadini nei confronti delle patologie cardiovascolari e cerebrovascolari acute ed all’invecchiamento della popolazione. Dopo i 70 anni, infatti, l’incidenza della sincope subisce un’impennata (9).
Attualmente circa l’1-2% degli accessi ai PS italiani avviene per una perdita di coscienza transitoria e gran parte di questi pazienti viene poi ricoverata con conseguenti ed importanti ricadute sui costi sanitari (4, 6). Negli Stati Uniti la spesa annuale per la sincope è simile a quella per l’HIV ed è determinata per circa i ¾ dai costi relativi al ricovero (7).
L’alto tasso di ricovero, così come l’eccessivo ricorso ad esami inutili o non indicati, esprime da una parte l’incertezza del medico d’urgenza relativamente alla potenziale gravità della patologia causa di sincope, dall’altra la generale scarsa applicazione delle linee guida (8). L’elevata proporzione di sincopi di natura benigna, cioè non dovute a situazioni pericolose per la vita, è responsabile del pessimo rapporto costo/beneficio del percorso diagnostico, per lo più riconducibile all’eccessivo ricorso all’ospedalizzazione.
Nonostante il massiccio consumo di risorse però, la performance diagnostica nel paziente con sincope, ovvero la percentuale di diagnosi eziologiche ottenute alla fine del percorso, rimane piuttosto bassa e, escluse alcune realtà di eccellenza in questo ambito, mediamente al di sotto del 50% (17, 18). È evidente che un modello gestionale di questo tipo risulti fallimentare sia sul piano economico che su quello medico: il non raggiungimento di una diagnosi comporta la mancata attuazione dei provvedimenti terapeutici finalizzati a correggere il difetto che ha causato la sincope e a prevenire quindi gli eventi avversi ad essa correlati e le recidive. Per esempio, sappiamo che 1/3 delle sincopi è responsabile di importanti traumi da caduta, soprattutto nel paziente anziano, con conseguenze drammatiche sulla qualità di vita, sull’autosufficienza, sulla sopravvivenza e quindi sui costi socio-sanitari (7, 10).
L’applicazione integrale e standardizzata delle linee guida, invece, consentirebbe di ottimizzare la performance diagnostica con concomitante riduzione dei ricoveri, dei test diagnostici non necessari e quindi dei costi di gestione (8, 11).

Il ruolo del Pronto Soccorso, dell’osservazione breve intensiva e la “syncope unit”

L’applicazione integrale delle linee guida sulla sincope comporta però competenze, tecnologie diagnostiche e tempi di gestione che non sono propri del PS. Questa apparente incompatibilità, relativamente al processo diagnostico, fra ambiti professionali dove abitualmente viene gestito il “caso” sincope e quanto prevedono le linee guida, è una delle principali ragioni della generale inadeguatezza del percorso clinico. È evidente che il medico d’urgenza non può e non deve farsi carico di tutto il percorso diagnostico, ed eventualmente terapeutico, del paziente che si rivolge al PS per una perdita di coscienza transitoria. Però, al pari di quanto accade per le altre condizioni morbose acute, il medico d’urgenza è responsabile della valutazione iniziale e dell’eventuale stabilizzazione clinica, attività che è di per sé parte integrante e irrinunciabile del percorso diagnostico-terapeutico della sincope. Attraverso gli esami clinici e strumentali propri della valutazione iniziale, si dovrebbe cercare di differenziare – esercizio non sempre facile – le perdite di coscienza di natura sincopale dalle perdite di coscienza che riconoscono meccanismi fisiopatologici diversi dalla ipoperfusione cerebrale (neurologiche centrali, metaboliche, tossiche, psicogene) e, per le forme sincopali, valutare se esistono i criteri per formulare una diagnosi. In tutti i casi devono essere individuate le condizioni cliniche ad alto rischio che richiedono un trattamento/ricovero in ambiente protetto/specialistico immediato (1).

Un’accurata valutazione iniziale, basata essenzialmente su anamnesi (patologica e dettagliata sull’evento), esame obiettivo ed elettrocardiogramma 12D, può da sola consentire di giungere alla diagnosi eziologica nel 30-50% delle sincopi (12, 13). A questo proposito è importante che anche il test della pressione arteriosa misurata in clinostatismo ed ortostatismo venga effettuato quanto prima in PS: in questo ambito è più probabile infatti che le condizioni emodinamiche che hanno favorito la sincope siano ancora presenti1. Nella maggior parte dei casi, però, l’iter diagnostico (e terapeutico) non si conclude con la valutazione iniziale. Una quota rilevante di sincopi rimane infatti indeterminata sul piano diagnostico, e il medico d’urgenza ha la responsabilità di decidere il miglior percorso successivo, che preveda un impiego razionale delle risorse disponibili e nel contempo garantisca la sicurezza del paziente.
Dal momento che la sincope è un sintomo che può essere espressione di svariate condizioni morbose, dalle più gravi alla più benigne risposte neuro-autonomiche anomale a stimoli “normali”, la prognosi generalmente è correlata alla malattia sottostante piuttosto che all’evento sincopale in sé. Le linee guida Europee (1) ed Americane (14) raccomandano l’ospedalizzazione, ovvero l’esecuzione di accertamenti in regime intensivo, per tutti quei pazienti con sincope indeterminata considerati ad alto rischio. Indicando come pazienti ad alto rischio coloro che risultano affetti da cardiopatia ischemica, strutturale o scompenso cardiaco, con importanti comorbosità, o per i quali vi sia il sospetto clinico e/o elettrocardiografico di sincope aritmica. Se in PS ci si basasse soltanto su questi criteri piuttosto generici, la gran parte dei pazienti con sincope indeterminata (soprattutto gli anziani) verrebbe ricoverata, privilegiando così la sicurezza del paziente nel breve periodo, ma senza garanzie sul lungo termine e sull’appropriatezza diagnostica. Viceversa, la standardizzazione del percorso clinico, non necessariamente in regime di ricovero, consente di ottenere una migliore performance diagnostica attraverso un impegno più razionale ed aderente alle linee guida delle risorse disponibili (8, 11, 19).
Nello studio italiano EGSYS II, la rigorosa ed uniforme applicazione delle linee guida europee, con l’ausilio di un decision-making software e la supervisione di un “esperto”, ha consentito di arrivare ad una diagnosi compiuta in oltre il 95% dei casi con una significativa riduzione dei test diagnostici del 39% (8).
Sulla base di queste osservazioni, la Società Europea di Cardiologia (ESC) sollecita l’istituzione negli ospedali di Syncope Facilities (o Syncope Unit), strutture funzionali che si avvalgono di percorsi clinici predeterminati e di un’organizzazione dei servizi diagnostici coordinata da “esperti”, nelle quali convergono competenze multidisciplinari (cardiologiche, mediche d’urgenza, neurologiche, geriatriche, ecc.). Il ruolo della Syncope Unit è quello di orientare o gestire direttamente il percorso diagnostico-terapeutico delle perdite di coscienza transitorie di natura indeterminata e delle situazioni cliniche a particolare rischio (sincopi recidivanti, traumi da caduta frequenti, perdite di coscienza in categorie lavorative a rischio, ecc.).
Le Syncope Unit dovrebbero essere punto di riferimento anche per il territorio e per gli ospedali limitrofi non adeguatamente
attrezzati per la diagnostica completa delle perdite di coscienza, con i quali si dovrebbero attivare convenzioni finalizzate alla attuazione di percorsi diagnostico-terapeutici condivisi. Il mantenimento di un elevato standard di competenze e conoscenze implica che queste strutture si facciano anche promotrici di attività culturali e portino avanti programmi di ricerca e di formazione specifici (1).
L’importanza strategica delle Syncope Unit negli ospedali è stata confermata negli ultimi anni anche dalle esperienze italiane2 (15).
L’osservazione breve intensiva (OBI), per le sue caratteristiche funzionali e di flessibilità gestionale, può rappresentare l’ambito ideale dove la gestione diretta da parte del medico d’urgenza può diventare non solo compatibile, ma anzi funzionale all’applicazione corretta delle linee guida sulla sincope, integrandosi con l’attività ambulatoriale della Syncope Unit.
L’OBI cioè, si presta assai bene al ruolo di Syncope Observation Unit, da un lato consentendo il completamento dell’iter diagnostico in una quota rilevante di pazienti, e dall’altro garantendo, tramite un monitoraggio prolungato e l’esclusione di patologie ad alto rischio, una dimissione sicura per i pazienti con sincope ancora indeterminata, che potranno quindi proseguire l’iter diagnostico in regime ambulatoriale presso la Syncope Unit (19).

Problematiche aperte Stratificazione del rischio

La prognosi della sincope è dettata dalla gravità della patologia che l’ha causata, e pertanto le sincopi riflesse neuromediate e da ipotensione ortostatica sono considerate generalmente benigne, mentre quelle cardiogene potenzialmente maligne. La sincope di origine cardiogena ha infatti una prognosi decisamente peggiore (mortalità ad un anno 20-33%) rispetto alle altre cause (21).
La necessità di effettuare una stratificazione del rischio, ovvero definire la probabilità che un paziente con episodio sincopale manifesti successivamente un evento avverso grave, è dettata dalla insostenibilità di una strategia troppo prudenziale che preveda l’ospedalizzazione per tutti i pazienti con diagnosi non determinata.
I pazienti considerati a basso rischio potrebbero invece essere dimessi dal DEA in sicurezza. Quindi, l’obiettivo delle valutazione della sincope in PS sta progressivamente modificandosi: dalla ricerca della diagnosi alla stratificazione prognostica (dall’approccio work to admit a quello work to discharge). Negli ultimi 15-20 anni numerosi gruppi di ricerca in tutto il mondo hanno cercato di mettere a punto degli score o delle clinical decision rule, con l’intento di fornire al medico di PS uno strumento semplice ed affidabile per classificare i pazienti in base al rischio, basso ed alto, da impiegare nel processo decisionale successivo alla valutazione iniziale (22, 27).
Gli score e le clinical decision rule derivano da studi prospettici e retrospettivi dove è stato pesato il potere predittivo di alcune variabili cliniche, anamnestiche o derivate da test diagnostici semplici (1° livello), sull’outcome.
Abbiamo oggi a disposizione una decina di score e rule, che si differenziano principalmente per l’outcome considerato – mortalità nel lungo termine (23, 25) o eventi clinici maggiori nel breve termine (24, 26, 27) – e per le variabili prognostiche considerate – cliniche, anamnestiche, elettrocardiografiche, ematochimiche.
Gli score OESIL (Osservatorio Epidemiologico sulla Sincope nel Lazio) (23) ed EGSYS (Evaluation of Guidelines in Syncope Study) (25) derivano da studi italiani e si applicano ai pazienti con sincope indeterminata dopo la valutazione iniziale in PS; utilizzano variabili che riconducono sostanzialmente alla probabilità di sincope cardiogena per predire la mortalità ad un anno. Il SFSR (San Francisco Syncope Rule) (24) invece si applica a tutti i pazienti nel momento in cui si presentano al DEA per sincope, quindi prima della valutazione iniziale; considera variabili cliniche che identificano, oltre alla cardiopatia, anche altre comorbosità rilevanti nel predire gli outcome sfavorevoli,
anche non fatali, ad una settimana. Il ROSE (Risk stratification Of Syncope in the Emergency department) rule (27) ha invece il merito di aver incluso fra le variabili prognostiche anche un marcatore bioumorale, il BNP, con un valore di cut-off di 300 pg/ml, al di sopra del quale sarebbe alta la probabilità di sincope cardiogena. Rimane da definire quanto il BNP elevato consenta di individuare sincopi potenzialmente cardiogene non già individuabili dagli altri esami di primo livello. Sebbene l’utilità pratica di questi ausili possa essere decisamente importante, prima di poterli impiegare nella pratica clinica è necessario che vengano validati esternamente, cioè in popolazioni differenti da quella dello studio che li ha prodotti, e che in questi nuovi studi riproducano gli stessi valori di sensibilità e specificità. Solamente l’OESIL e il SFSR, ad oggi, sono stati validati esternamente, con risultati però contraddittori rispetto agli studi originali (28, 29). Oltre alla scarsa validazione esterna, gli studi che hanno prodotto gli score presentano anche altri limiti di tipo metodologico, fra i quali la mancanza di gruppi di controllo e, spesso, di cecità rispetto allo score nella valutazione dell’outcome (30).
La generale bassa specificità degli score, cioè l’elevato numero di pazienti rientranti nelle categorie ad alto rischio che in realtà non andranno incontro ad eventi avversi, fa sì che il loro impiego allo scopo di stabilire l’indicazione al ricovero possa determinare un alto livello di inappropriatezza.
Analizzando il rovescio della medaglia, questa bassa specificità è però anche il principale punto di forza degli score attualmente disponibili: è infatti la contropartita di un ottimo potere predittivo negativo. Un paziente con punteggio “basso” (al di sotto della soglia fra basso ed alto rischio) ha sicuramente una probabilità di andare incontro ad eventi avversi molto bassa.
Sarebbe quindi auspicabile un consenso generale su uno score ideale, il quale dovrebbe avere caratteristiche di facile applicabilità, elevate sensibilità e specificità e convincente validazione esterna (31), che possa aiutare il medico d’urgenza a decidere quali pazienti ricoverare, quali avviare ad accertamenti intensivi e quali invece poter dimettere.
In attesa di avere a disposizione lo score ideale, se mai lo si avrà, potremmo utilizzare quelli esistenti, almeno per individuare i pazienti a basso rischio che potrebbero essere dimessi in sicurezza direttamente dal PS. Con questa finalità gli score OESIL ed EGSYS sarebbero i più adatti: possiedono infatti, ai bassi punteggi, un elevato potere predittivo negativo sulla mortalità ad un anno e sono applicabili ai pazienti con sincope indeterminata dopo la valutazione iniziale.
Una recente revisione della letteratura sulla prognosi dopo evento sincopale, commissionata dalla Società Canadese di Cardiologia, ha fatto notare che un evento avverso non fatale si manifesta nel 7,5% dei pazienti già durante la permanenza nel DEA, mentre solo nel 4,5% durante il mese successivo. Inoltre gli eventi fatali si verificano in appena lo 0,9% dei pazienti durante il mese successivo alla sincope (32). Questi dati sostanzialmente ci dicono che durante la valutazione iniziale dovremmo essere in grado di riconoscere la maggior parte delle patologie a rischio immediato di eventi avversi e che la mortalità nel breve periodo dopo un episodio sincopale, a prescindere dalla sua diagnosi, è comunque molto bassa. La stratificazione prognostica nel paziente con sincope, però, non può essere finalizzata esclusivamente alla selezione del paziente da dimettere direttamente dal PS, perché a basso rischio di mortalità, ma deve essere il punto di partenza di percorsi diagnostici differenziati, possibilmente precostituiti, che abbiano come obiettivo comune il raggiungimento della diagnosi.
La sincope, quando indeterminata, ha infatti una prognosi intermedia fra l’elevata mortalità delle sincopi cardiogene accertate e la sostanziale ininfluenza sulla sopravvivenza delle sincopi vaso-vagali accertate (21). Un recente studio epidemiologico danese effettuato su oltre 37.000 pazienti con sincope e assenza di comorbosità correlate, ha rilevato un significativo incremento di eventi avversi nei 4-5 anni successivi, dalla mortalità all’impianto di elettrostimolatore e/o defibrillatore, rispetto alla popolazione con pari caratteristiche ma senza sincope (33).
Inoltre, particolari condizioni, anche in presenza di sincope “benigna”, devono essere considerate ad alto rischio di eventi secondari: la sincope nell’anziano ed il rischio di trauma da caduta (34), le categorie professionali a rischio per danni a terzi (autisti, piloti, ponteggiatori, ecc.), le sincopi con recidive frequenti. Queste categorie dovrebbero essere gestite da strutture adeguate con la finalità di raggiungere una diagnosi certa e prevenire le recidive. Non bisogna quindi fare l’errore di considerare il basso rischio equivalente allo “zero” rischio. Esiste infatti un ampio ventaglio di situazioni cliniche a rischio non immediato e difficilmente quantificabile con precisione, che potremo definire a rischio intermedio, che si avvantaggerebbe certamente di un percorso diagnostico-
terapeutico extraospedaliero approfondito e competente, quale quello che può offrire la Syncope Unit, piuttosto che di un ricovero generico, costoso e molto spesso inconcludente. Peraltro non vi è dimostrazione che il ricovero ospedaliero di per sé abbia effetti favorevoli sugli outcome a lungo termine.

Diagnosi

La diagnosi è il momento conclusivo dell’iter valutativo del paziente con sincope; con una diagnosi definitiva possiamo essere in grado di instaurare il trattamento più efficace. Se si applicassero integralmente le linee guida, dovremmo teoricamente arrivare ad una diagnosi quasi nel 100% dei casi, come le esperienze delle Syncope Unit, anche in Italia, effettivamente sembrerebbero confermare.
Ma allora perché siamo così lontani da questo traguardo? Di seguito vengono elencate alcune delle possibili ragioni:
La mancanza di un gold standard diagnostico rende obbligatorio un percorso per step che richiede competenze e tecnologie, non sempre disponibili. La scelta dei test diagnostici è spesso guidata dalla disponibilità locale e/o da abitudini consolidate (un piccolo
ospedale senza servizio di elettrofisiologia farà certamente meno studi elettrofisiologici di quanti effettivamente indicati e, magari, avendo la disponibilità di un registratore-Holter farà più monitoraggi ECG/24 ore del necessario).
Il percorso diagnostico è spesso orientato ad escludere patologie pericolose per la vita piuttosto che a ricercare la causa della sincope. Questo atteggiamento difensivistico è molto diffuso ed è in gran parte responsabile dell’elevato numero di test diagnostici non indicati e spesso inutili (p.es. TC cranio in assenza di trauma).
La possibile coesistenza, nello stesso paziente, di differenti meccanismi alla base degli episodi sincopali (situazione frequente nell’anziano). La difficoltà nell’interpretazione dei test provocativi (come, ad esempio, dei test neuroautonomici). Per ovviare almeno in parte a questi problemi, come si è detto, è necessario adottare un percorso clinico standardizzato. Lo snodo cruciale del percorso diagnostico non può essere ridotto infatti alla sola selezione del paziente da ricoverare o da non ricoverare, ma deve articolarsi su più snodi decisionali consequenziali, basati sulla scelta e la tempistica dei test per ogni singolo caso. Il raggiungimento di una diagnosi definitiva può però richiedere tempi anche molto lunghi. La sporadicità del sintomo rende infatti assai difficile documentare clinicamente l’evento, unica condizione per poter effettuare una diagnosi certa, basata cioè sul reale meccanismo fisiopatologico.
La necessità di giungere ad una diagnosi in tempi brevi determina spesso il ricorso a test diagnostici provocativi, che cercano cioè di riprodurre il sintomo (sincope) attraverso una stimolazione artificiale (tilt-test, massaggio del seno carotideo, studio elettrofisiologico, ecc.). La positività di un test provocativo non garantisce sempre sull’eziologia della sincope sotto indagine, così come la sua negatività non può confutare un sospetto clinico. La mancanza di un gold standard diagnostico di riferimento rende infatti assai difficile misurarne sensibilità e specificità. Questo vale soprattutto per i test neuroautonomici (in particolare per il tilt-test ed il massaggio del seno carotideo), dove una positività del test, con o senza la riproduzione della sincope, potrebbe essere espressione di una disfunzione
a quel livello, non necessariamente responsabile dell’evento sincopale (45, 46). Quindi, per ridurre il rischio di errore nell’interpretazione del risultato di un test provocativo, soprattutto se questo può condizionare scelte terapeutiche impegnative, devono essere preventivamente valutate con attenzione l’indicazione e la probabilità pre-test.
La documentazione di una significativa anomalia del ritmo cardiaco attraverso monitoraggio elettrocardiografico durante un evento sincopale “spontaneo” consente invece di far diagnosi del meccanismo che ha provocato la perdita di coscienza3.
I test provocativi potrebbero quindi consentire una diagnosi rapida, ma non sempre certa, mentre i test che mirano a documentare le sincopi spontanee potrebbero richiedere anche molti mesi, o addirittura anni, prima di arrivare ad una diagnosi, che sarebbe però certa. Asistolie protratte e blocchi AV parossistici rappresentano il meccanismo più frequente (in oltre il 50% dei casi) delle sincopi inspiegate ricorrenti. Una recidiva sincopale però si verifica entro un anno solamente nel 30% dei pazienti, entro due anni nel 43% ed entro 3 anni nel 52% (35).
Tanto più lungo è il monitoraggio ECGrafico, quanto maggiori saranno le probabilità di “catturare” l’evento e registrarlo.
Esistono diversi sistemi di monitoraggio ECGrafico prolungato, che si differenziano principalmente per la durata:
telemetria (raccomandata per tutti i pazienti ad alto rischio durante le prime ore del percorso diagnostico), ECGHolter di 24-72 ore, event recorder, loop recorder esterno e loop recorder impiantabile. Quest’ultimo ha un’autonomia di monitoraggio che può superare i tre anni. La scelta del sistema di monitoraggio ECGrafico dipende dunque dalla frequenza ipotetica delle recidive sincopali.
Il loop-recorder impiantabile è lo strumento più efficace per stabilire il meccanismo delle sincopi ricorrenti di incerta natura, ove non esista una reale urgenza diagnostica. Esistono numerose evidenze sulla sua efficacia diagnostica e sulle rilevanti ricadute terapeutiche in questi casi (35, 42).
Lo studio ISSUE-3 ha dimostrato che nelle sincopi indeterminate, nelle quali il loop recorder abbia registrato pause asistoliche/bradicardie significative associate ad una successiva perdita di coscienza, l’impianto di pace-maker ha ridotto le recidive di oltre il 50% (43).
L’impossibilità di monitorare a distanza anche la pressione arteriosa e/o le resistenze vascolari periferiche rende probabilmente conto, almeno in parte, della quota di sincopi che rimangono indeterminate nei casi in cui il monitoraggio ECG prolungato non dimostri anomalie del ritmo. I test diagnostici molto spesso ricercano l’eziologia della sincope, però l’eziologia non sempre fornisce informazioni definitive circa il meccanismo alla base della perdita di coscienza e quindi utili per un trattamento mirato. Una stessa eziologia può causare perdita di coscienza con diversi meccanismi, così come lo stesso meccanismo sincopale può essere condiviso da diverse eziologie. Ad esempio, la sincope ad eziologia vaso-vagale può avere un meccanismo cardioinibitorio oppure vasodepressivo; il trattamento è evidentemente molto diverso secondo il meccanismo prevalente.
L’efficacia del trattamento è dunque determinata dal meccanismo della sincope piuttosto che dalla sua eziologia. Se l’obiettivo della diagnosi è quello di indirizzare verso la scelta del trattamento più efficace, allora probabilmente dovremo indirizzare il percorso diagnostico alla dimostrazione del meccanismo della sincope piuttosto che alla ricerca della sua eziologia (44).
Gli avanzamenti tecnologici, con la diffusione di devices per il monitoraggio ECG prolungato sempre più piccoli e con maggiore autonomia, potranno dare certamente un impulso notevole a questo tipo di approccio nel prossimo futuro.

1) Per i dettagli sugli accertamenti previsti nella valutazione iniziale e per i criteri diagnostici delle sincopi riflesse e da ipotensione ortostatica si rimanda alle linee guida 2009 della Società Europea di Cardiologia (ESC) (1).

2) Per le caratteristiche organizzative delle Syncope Unit si rimanda al documento di consenso AIAC-GIMSI (Associazione Italiana Aritmologia
e Cardiostimolazione – Gruppo Italiano Multidisciplinare per lo studio della SIncope) (16).

3) Per indicazioni, modalità di esecuzione ed interpretazione dei test diagnostici, si rimanda alle linee guida ESC 2009 (1).

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