Quale semi-intensiva per la Medicina d’Urgenza?

Paolo Groff

Il Congresso SIMEU di Rimini è stato l’occasione per una cospicua serie di dibattiti ed approfondimenti organizzativi sul mondo dell’emergenza-urgenza in Italia che hanno arricchito il già variegato e complesso programma scientifico.

Un argomento che, in particolare, ha raccolto un nutrito gruppo di professionisti attorno ad un’animata discussione è stato quello sui potenziali modelli di “terapia semi-intensiva” o “intermediate care units” o “high dependency units” gestiti dal Medico d’Urgenza ed integrati nel Dipartimento d’Emergenza.

Si tratta in realtà di una problematica non nuova nell’ambito della medicina critica, che ha, di volta in volta, risentito di influenze e teorizzazioni diverse a partire dai primi anni 90. Un aspetto da considerare oggi, nell’affrontare l’argomento, è quindi il fatto che con un’unica definizione andiamo ad indicare modelli organizzativi molto diversi.

Nell’anno 2000 Nguyen e Rivers pubblicavano un lavoro osservazionale prospettico volto a definire l’impatto che le procedure di “critical care” effettuate nel Dipartimento d’Emergenza (negli Stati Uniti ben differenziato dall’Intensive Care Unit, ICU) avevano sugli indici predittivi di sopravvivenza in ospedale di un gruppo di pazienti affetti da sepsi severa/shock settico (1).

Gli autori, che partivano dal presupposto che negli Stati Uniti un numero crescente di procedure di medicina critica vengono effettuate nel Dipartimento d’Emergenza, dimostravano che tali procedure sono le più significative nel ridurre la mortalità predetta ed attuale dei pazienti critici durante l’intera degenza. Essi stessi, peraltro, osservavano come lo studio si basasse su predittori di mortalità (APACHE II e SAPS II) validati in terapia intensiva a partire dalla fine del primo giorno di degenza e auspicavano che si lavorasse a definire degli indici di outcome che specificamente tenessero conto del contesto organizzativo e degli interventi propri dell’emergenza-urgenza, a partire dalla fase pre-ospedaliera. Un’altra considerazione deve essere fatta. Nguyen e collaboratori lavoravano nel contesto di una Unità perfettamente autonoma dal punto di vista dello staff medico ed infermieristico (Early Intervention Team, nurse: patient ratio = 1:1), benché pienamente integrata nel Dipartimento d’Emergenza, dotata di letti propri, supportata da competenze e attrezzature capaci di garantire un pieno monitoraggio di tipo invasivo (ICU without walls). La cosa non è di poco conto, visto che analisi successive sembrano supportare l’efficacia del modello relativamente alla sicurezza per il paziente rispetto al “ritardo potenziale” di accesso all’ICU nel contesto di un ospedale sempre più gravato dai nefasti effetti dell’overcrowding del pronto Soccorso (2). Questo sembrerebbe vero indipendentemente dal modello di “presa in carico” da parte dell’ICU del paziente trattato presso il Dipartimento d’Emergenza: il modello “ICU-centrico”, il modello “ED-centrico” (quello di Nguyen e Rivers, per intenderci), o quello “collaborativo” basato su protocolli condivisi EBM guidati. Analogamente, valutazioni economiche, pur con i grossissimi limiti che esse hanno nel misurare l’impatto di differenti soluzioni organizzative nell’ambito ospedaliero, sostengono un modello così concepito, se è vero che una “buona” critical care practice applicata nel Dipartimento d’Emergenza riduce l’intensità e la durata del trattamento successivo in ICU, mentre una “cattiva” critical care practice nel DEA aumenta i costi globali dell’ICU (3). Mi piace ricordare come tra i fattori determinanti di una buona “critical care practice” nel DEA vengano annoverati l’applicazione del protocollo EGDT per la sepsi grave e l’utilizzo precoce della NIV per l’insufficienza respiratoria acuta.

Ma non è tutt’oro quello che luccica. Gli autori dei lavori citati più volte osservano che l’efficacia del modello proposto riflette in modo evidente l’esperienza di singoli centri e che in nessun modo i buoni risultati osservati possono essere generalizzati all’intero territorio nazionale (gli USA!), il maggior vincolo essendo la notevole disomogeneità di competenze ed organizzazione dei DEA nel paese. Riportando un’esperienza di un paese vicino agli USA per cultura e tendenze (il Canada), Green e Mc Intyre analizzavano retrospettivamente una serie di pazienti critici trattati tra DEA e ICU (4). Oltre a confermare la crescente tendenza ad una prolungata permanenza di questi pazienti nel DEA, gli Autori osservavano come delle procedure di critical care prese in esame, solo alcune (ad esempio l’intubazione endotracheale) venissero effettuate in ambito pre-ospedaliero o nel DEA, mentre altre (come il posizionamento di vena centrale o l’incannulamento arterioso) fossero praticate non appena il paziente veniva trasferito in ICU. Essi esprimevano quindi la preoccupazione che il livello di competenza del Medico d’Urgenza fosse ben lontano dall’essere completo e che questo potesse riflettersi in un incremento del rischio clinico.

Mentre il dibattito nord-americano si sviluppava attorno a questi argomenti, potremmo dire quasi parallelamente, una proposta sensibilemente diversa, più squisitamente europea cominciava ad impegnare gli intensivisti di varia estrazione.

Studiando una casistica di 8095 pazienti ricoverati in 15 ICU del sud dell’Inghilterra tra il 1993 e il 1994, Pappachan e collaboratori rilevavano come il 51,2 % di essi avesse un rischio di morte prevedibile mediante APACHEII inferiore al 10%, o fossero caratterizzabili come “low-monitor patients”, o non necessitassero comunque di supporto respiratorio aggressivo (5). In pratica, venivano poste le basi per il dibattito relativo all’organizzazione delleterapie semi-intensive o “intermediate care units” o “high dependency units”, concepite come degenze dedicate aquei pazienti che non necessitano propriamente di terapia intensiva, ma che richiedono un livello di monitoraggiosuperiore a quello garantito dalle degenze ordinarie, che richiedono una frequente rivalutazione dei parametrivitali e/o frequenti interventi di tipo assistenziale, ma che generalmente non richiedono monitoraggio invasivo. Talistrutture sono state proposte come valido strumento per ottimizzare l’utilizzo di risorse per questo tipo di pazienti,quelli cioè a basso rischio attuale, ma ad elevato rischio potenziale, per i quali, inoltre, un ambiente “meno invasivo” e che consentisse un maggiore accesso ai parenti risultava idealmente più gradito.

Benchè siano state fin dall’inizio pubblicate linee guida finalizzate all’applicazione e al mantenimento di standardqualitativi in merito (6), le realizzazioni di questo livello organizzativo clinico e assistenziale sono state quanto maivariabili ed è difficile, oggi, citare esempi pratici validi per tutte le esperienze. Probabilmente, quella più consolidata in Italia e a livello internazionale rimane l’esperienza delle UTIR, come terapie “semi-intensive d’organo”, chehanno, tra l’altro, affermato lo standard di un rapporto infermiere/paziente di 1:4 ed un livello di monitoraggio edi intervento prevalentemente non-invasivo (7).

L’introduzione delle semi-intensive è stata salutata con un certo entusiasmo in quanto forniva uno strumento versatile di gestione di pazienti acuti o cronici riacutizzati non direttamente candidabili all’ICU ed inoltre consentiva aquest’ultima di affinare l’appropriatezza del case-mix, svincolando le liste operatorie dalla disponibilità di posti interapia intensiva. Come è logico ritenere, le prime analisi hanno evidenziato una potenziale riduzione di costi perl’ospedale. Tuttavia, a sottolineare la complessità dell’argomento, una recente esperienza olandese ha rilevato, aseguito dell’introduzione di una intermediate care nell’ospedale, un incremento dei costi globali per l’ospedale el’ICU, dovuta all’aumento di intensità clinico-assistenziale dei pazienti (prevalentemente chirurgici e neuro-chirurgici) e della loro durata di permanenza (8).

Il dibattito italiano, promosso al Congresso SIMEU di Rimini, si affaccia a pieno titolo sulla molteplicità di esperienze fino ad ora effettuate nel nostro paese, che vede alcuni (pochi) DEA dotati di strutture interamente assimilabilia delle ICU (modello americano), altri (un po’ più numerosi) dotati di degenze attrezzate per monitoraggio osupporto prevalentemente non-invasivo (modello intermediate care), molti (purtroppo) non ancora dotati di vere eproprie strutture di degenza o, al massimo, dotati di pochi letti di osservazione.

È necessario mantenere alto il livello di interesse su questa analisi interna e, soprattutto, procedere nei tempi piùbrevi possibile ad un censimento delle aree dedicate all’osservazione/stabilizzazione dei pazienti acuti (comunque si decida di chiamarle) integrate nei nostri Dipartimenti d’Emergenza e gestite dai Medici d’Urgenza, alfine di formulare uno “standard” e proposte correttive ove queste siano necessarie. Esistono, infatti, interrogativiimportanti ai quali è necessario dare una risposta, quali, ad esempio, il livello di intensità adeguato, la strumentazione minima indispensabile, il numero di posti letto/numero di passaggi-anno adeguato, la durata ottimale delladegenza. È vero che sono disponibili degli standards pubblicati, ma essi rappresentano un obiettivo teorico, unospartito ideale per una sublime sinfonia. Solo l’analisi dell’esistente, del reale, può informarci pienamente dellanostra potenza di fuoco e dell’affidabilità delle risposte che vogliamo dare ai suddetti interrogativi.

Nel panorama generale di una organizzazione sanitaria che muove verso un’ulteriore contrazione dei posti lettoe un ospedale che si struttura per intensità di cure, non è difficile intuire la posta in gioco: l’intermediate care dellamedicina d’Urgenza può costituire l’architrave dell’intera struttura, il vero punto di snodo tra territorio e ospedale(e intendo un movimento nei due sensi).

Sta a noi evitare di perdere il treno.

References

1. Nguyen BH, Rivers EP, Havstad S, Knoblick B, Ressler JA, Muzzin AM, Tomlanovich MC. Critical care in the emergency department: a physiologic assessement and outcome evaluation. Academic Emergency Medicine 2000; 7: 1354-1361
2. Cowan RM, Trzeciak S. Clinical review: emergency department overcrowding and the potential impact on the critically ill. Critical Care 2005; 9: 291-295
3. Huang DT. Clinical review: impact of emergency department care on intensive care unit costs. Critical Care 2004; 8: 498-502
4. Green RS, Mc Intyre J. Critical care in the Emergency Department: an assessement of the length of stay and invasive procedures performed on critically ill ED patients. Scandinavian Journal of Trauma, Resuscitation and Emergency Medicine 2009; 17: 47
5. Pappachan JV, Millar BW, Barrett DJ, Smith GB. Analysis of intensive care populations to select possible candidates for high dependency care. J Accid Emerg Med 1999; 16: 13-17
6. Society of Critical Care Medicine. Guidelines for admission and discharge for adult intermediate care units. CritCare Med 1998; 26 (3): 607-610
7. European Respiratory Society Task Force on epidemiology of Respiratory Intermediate Care Unit in Europe. Respiratory Intermediate Care Units: a European survey. Eur Respir J 2002; 20: 1343-1350
8. Solberg BCJ, Dirksen CD, Nieman FHM, van Merode G, Poeze M, Ramsay G. Changes in hospital costs after introducing an intermediate care unit: a comparative observational study. Critical Care 2008; 12: R68