La macro-evidenza dell'oligo-analgesia

Fabio De Iaco

Pronto Soccorso Imperia, A.S.L. 1 Imperiese

Abstract

Il termine “oligoanalgesia” è stato coniato trent’anni fa1 e da allora ha sempre costituito un atto d’accusa nei confronti dei Medici d’Emergenza Urgenza: sono numerose in letteratura le denunce della nostra scarsa efficacia rispetto al problema del dolore acuto, con accenti di volta in volta posti sulle discrepanze di trattamento tra adulti e bambini o anziani, tra maschi e femmine, o ancora su vere e proprie discriminazioni fondate su differenze razziali. Le campagne in sostegno di una rapida ed efficace analgesia in urgenza sono state numerose e, come dice Steven Green in un bell’editoriale pubblicato sull’ultimo numero degli Annals2, oggi tutti i Medici d’Emergenza Urgenza negli Stati Uniti proclamano di essere assolutamente pronti ed efficienti nel trattamento del dolore acuto. C’è da chiedersi, vista la continua produzione di lavori sull’oligoanalgesia, se da qualche parte non esista un mondo parallelo dell’urgenza popolato da professionisti crudeli che continuano a lasciar soffrire i propri pazienti. Green, autorevole “opinion leader” in materia di analgesia e sedazione procedurale, per la prima volta mette in discussione i luoghi comuni sull’oligoanalgesia in urgenza negli Stati Uniti, ponendo alcuni doverosi interrogativi sui bias che stanno alla base di un certo tipo di letteratura. La tesi di fondo dell’editoriale, dal titolo “C’è oligoevidenza sull’oligoanalgesia”, è che oggi negli Stati Uniti l’oligoanalgesia non sia più lo spettro che infestava le sale dei Dipartimenti d’Emergenza di trent’anni fa, ma al contrario sia un’entità sovrastimata ed in qualche misura mistificata per una serie di motivazioni: il cosiddetto publication bias (per cui gli studi che giungono a conclusioni di sicuro impatto quali l’oligoanalgesia, il sessismo, il razzismo trovano spazio decisamente maggiore rispetto ad altri studi dalle conclusioni meno dirompenti), le evidenti limitazioni metodologiche di studi solo retrospettivi basati sulla revisione di cartelle cliniche spesso incomplete, studi che non possono inserire nella propria valutazione aspetti fondamentali come la preferenza del paziente (che spesso rifiuta l’analgesico propostogli) ed anche, non ultimo, la frequente noncuranza rispetto ad imprescindibili elementi di contesto (uno per tutti l’overcrowding) che condizionano pesantemente tutti i nostri esiti. Dunque, secondo Green, l’oligoanalgesia non è più la realtà imperante nei Dipartimenti d’Emergenza statunitensi: al contrario il grado di attenzione e consapevolezza dei Medici d’Emergenza Urgenza è decisamente elevato e sarebbe necessario individuare indicatori più fedeli per misurare la reale efficacia dell’analgesia in urgenza. È inevitabile, per chi da qualche anno si occupa della questione, tentare di tracciare un parallelo tra la situazione americana e la nostra (italiana, ma più probabilmente europea). Non c’è dubbio che la storia della nostra Medicina d’Emergenza Urgenza sia ben più recente di quella americana: ci separano quarant’anni di vita della Società Scientifica, di lotte ed affermazioni, di letteratura specialistica, che hanno conferito all’ACEP un’autorevolezza scientifica ed un ruolo politico-istituzionale che per noi sono ancora distanti. Perché le campagne culturali e formative abbiano un’efficacia è necessario che innanzi tutto trovino il proprio interlocutore: fino a pochi anni fa non esisteva un Medico d’Emergenza Urgenza al quale far giungere il messaggio, e probabilmente ancor oggi non abbiamo raggiunto la piena consapevolezza del nostro campo d’azione e dei nostri obiettivi. È per questo che è ben difficile giungere alle stesse conclusioni di Green: paghiamo la “giovinezza culturale” con la “leopardizzazione” della nostra realtà. Possiamo vantare centri di reale eccellenza, in cui tutte le conquiste della Medicina d’Emergenza Urgenza sono applicate, ma dobbiamo francamente ammettere l’esistenza di altre realtà culturalmente ed operativamente arretrate. Anche in tema di analgesia: un’indagine SIMEU di prossima pubblicazione ha individuato l’indice medio d’impiego di oppiacei iniettabili in Pronto Soccorso in Italia, che è poco superiore al valore di 0,9 ogni 100 accessi, valore senza dubbio insufficiente pur in assenza di termini di paragone: a fronte di centri che presentano un indice che supera le 4 fiale di oppiaceo ogni 100 accessi (realtà certamente virtuose, probabilmente prossime all’eccellenza), altre presentano indici inaccettabili, pari a 3 fiale di morfina su circa 20000 accessi (0,01 fiale/100 accessi). Dunque, per una volta, non possiamo concordare con le conclusioni degli Annals, ma siamo costretti ad affermare che in Italia l’oligoanalgesia continua ad essere lo spettro evocato già nel 1989. Tuttavia l’editoriale di Green offre spunti di riflessione validi anche nella nostra realtà, in particolare quando, superando la rigidità di un approccio scolastico al problema, afferma che l’appropriatezza dell’analgesia in urgenza non consiste semplicemente nell’abbassare uno score, ma è invece il risultato di una complessa interazione tra preferenze del paziente, giudizio del medico e fattori di contesto che sfuggono alle valutazioni retrospettive: affermazioni che riflettono una piena consapevolezza del problema ma che, si dirà, possono essere applicate ad ogni condizione clinica in Medicina d’Urgenza. Certamente è così: nel caso specifico della gestione del dolore acuto ignorare la complessità di questa interazione conduce inevitabilmente ad errori nella valutazione della nostra performance. Di fronte al dolore acuto agiamo con strumenti imperfetti: l’intensità del dolore è la somma di una serie di fattori tra loro indipendenti e tutti mal valutabili (che sono fisiologici, psicologici, culturali, ecc.) e le nostre stesse scale di valutazione – necessariamente unidimensionali – non sono idonee a determinare con certezza il grado di sofferenza del paziente. Trattiamo il dolore come un parametro vitale: è questo l’unico approccio possibile, ma non abbiamo a disposizione un monitor che quantifichi l’efficacia dei nostri interventi. È opinione diffusa che la rivalutazione del dolore eseguita su uno score sia un sistema fallace, attraverso il qualeprobabilmente sottostimiamo il risultato della nostra analgesia. Piuttosto che chiedere di quanti punti abbiamo abbassato la scala sarebbe più corretto domandare semplicemente al paziente se senta la necessità di ulteriore trattamento: che poi significa spostare l’attenzione dal parametro al paziente. Nella stessa maniera l’indice di consumo degli oppiacei è strumento imperfetto, prezioso nel momento in cui testimonia l’adeguamento di differenti strutture ad uno standard minimo, ma insufficiente ad esprimere un giudizio sulla nostra reale capacità di incidere sul vissuto del paziente. L’imperativo di misurare la nostra performance ci tiene inesorabilmente ancorati all’aritmetica: ottenere buoni numeri sarà certamente un successo, al quale tende un intero movimento culturale e verso il quale sono concentrati gli sforzi della nostra Società. E tuttavia, come spesso ci viene ricordato nei nostri corsi (“Tratta il paziente, non il monitor!”) un’eccessiva attenzione ai numeri rischia di ingannarci. Il nostro obiettivo – ambizioso, difficilissimo – è diminuire la sofferenza: abbassare uno score è solo uno strumento, non certo il fine. Ci viene imposta una missione ardua, forse impossibile, che non potremo mai concludere se non riusciremo, pur nelle difficoltà del nostro contesto e tra le imprescindibili priorità del nostro mondo, a divenire consapevoli di quel tanto di invalutabile che sta nel dolore, nell’angoscia, nella paura. Non esiste indicatore per tutto questo: se esistesse potremmo tentare di basare sulle evidenze anche un aforisma di Ippocrate: “Il calore che si irradia dalla mano, applicato ai malati, è altamente salutare”. Ma c’è qualcuno che sente la necessità di un Ippocrate evidence-based? Continueremo a misurare la nostra efficacia su mille parametri differenti. Probabilmente nel caso del dolore, parametro soggettivo, dovremmo aggiungere un indicatore altrettanto soggettivo: il grado di soddisfazione che noi stessi proviamo nell’alleviare il dolore altrui. Sarà difficile scriverne una review Cochrane, ma certamente ce ne gioveremmo tutti: pazienti, medici ed infermieri.

References

1. Wilson JE, Pendleton JM. Oligoanalgesia in the emergency department. Am J Emerg Med; 7: 620-623.

2. Green SM. There is oligo-evidence for oligoanalgesia. Ann Emerg Med; 60: 212-214.